I CETNICI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE


PREFAZIONE

La conoscenza delle vicende del movimento cetnico non è particolarmente avanzata in Italia: effettivamente non è agevole comprendere il percorso di un movimento che nasce per combattere i croati e gli occupanti italo-tedeschi e poi finisce per collaborare con entrambi. Lo sviluppo di queste milizie è difficile da analizzare, perché indubbiamente i cetnici collaborarono con le forze d’occupazione, e quindi furono dei collaborazionisti. Certo il loro progetto complessivo era diverso: tutto era subordinato, anche i rapporti con gli italiani, alla prospettiva della vittoria degli alleati e quindi della restaurazione monarchica. Per raggiungere un simile obiettivo, i cetnici avrebbero chiesto aiuto solo alla popolazione serba. In prospettiva, questo era un elemento di notevole debolezza mentre Tito aveva la capacità di rivolgersi a tutto il paese. L’ultimo elemento del programma cetnico riguardava la lotta a fondo contro i partigiani, odiati perché comunisti. Il movimento creato da Mihajlovic e dai suoi sostenitori è stato appoggiato dagli inglesi e anche dagli americani, almeno fino al 1943. Alla fine i cetnici sono stati sconfitti e demonizzati. In realtà è la Serbia ad aver perso tutto, nella nuova Jugoslavia di Tito: le forze serbe nazionaliste e monarchiche sono state sconfitte nella guerra civile, e il loro territorio ha subito le conseguenze della disfatta. Dopo la morte di Tito, però, qualcosa cambia ed i serbi iniziano a rialzare la testa. Nel pieno della guerra etnica e anche dopo, il fatto curioso è che dei partigiani non si ricorda più nessuno, mentre il movimento cetnico mostra tutta la sua forza ed è anche in grado di mandare i propri uomini a combattere per la Serbia, mentre in Croazia ricompaiono gli ustascia. Probabilmente, alcune interpretazioni della guerra civile in Jugoslavia sono false. Il fatto fondamentale è che anche le posizioni dei partigiani erano fortemente nazionaliste, ma c’era una coperta rossa che ha aiutato a confondere le idee. Negli anni Novanta, quando il nazionalismo è riemerso con tutta la sua forza, la popolazione ha deciso di accettare le posizioni originali, dimenticando come quelli che predicavano il comunismo praticassero il nazionalismo.
Il presente libro ricostruisce con precisione i rapporti tra le forze armate italiane ed il movimento cetnico. Dopo l’attacco italo-tedesco alla Jugoslavia, la sconfitta delle forze jugoslave fu totale. Alla disfatta seguì la spartizione della Jugoslavia: la Germania occupò, direttamente o indirettamente (tramite alcuni Quisling locali), gran parte della Slovenia e la Serbia. L ‘Italia acquisì il Montenegro, la Dalmazia, il Kosovo e una parte ridotta della Slovenia, mentre l’Ungheria s’impadronì della Vojvodina. Alcuni comandanti serbi reagirono alla disfatta, iniziando a riorganizzare alcuni combattenti, costituiti in gruppi d’autodifesa. Successivamente, agli ex combattenti si aggiunsero i contadini: era l’inizio del movimento cetnico, con cui alcuni ufficiali filomonarchici intendevano cercare di controllare la situazione locale in Serbia. Questi combattenti (assieme ai partigiani) riuscirono a liberare quasi il 75 per cento della Serbia, ma poi si ruppe il rapporto con gli uomini di Tito ed iniziarono i combattimenti tra le due forze della resistenza. Gli scontri tra cetnici e partigiani, iniziati il 2 novembre del 1941, continuarono per tutta la durata della guerra in Jugoslavia: furono molto duri, e all’inizio i partigiani subirono varie perdite. In Serbia la sconfitta dei comunisti fu totale, ma questo segnò anche l’inizio delle fortune di Tito, un croato che in Serbia non avrebbe avuto la possibilità di espandersi, ma che trovò invece in Bosnia una situazione favorevole. La maggior parte dei morti in Jugoslavia (circa un milione) derivò dallo scontro duro e senza quartiere fra le varie milizie impegnate a combattersi per il dominio sul Paese. In teoria, il comando dei cetnici era affidato a Draža Mihajlovic, ma in pratica egli non riuscì mai ad esercitare una leadership convincente sui vari capi politici e militari cetnici. Mihajlovic era un conservatore, ma parecchi dei suoi comandanti erano su posizioni nazionaliste serbe radicali, il cui ultimo obiettivo era la creazione di una Grande Serbia indipendente, depurata da chi non era serbo. Mihajlovic non riuscì mai a dare ai suoi uomini una posizione coerente, e pure lui sbagliò in parecchie occasioni, soprattutto con la scelta di unirsi agli italiani per combattere i partigiani. Nella complessa realtà internazionale dell’epoca Tito fu sicuramente più abile, riuscendo a cogliere quali erano i veri interessi degli alleati rispetto ai movimenti di resistenza operanti in Jugoslavia. Di fatto, i cetnici combattevano contro i partigiani e talvolta contro i croati, ma dopo aver sperimentato le rappresaglie tedesche si evitava accuratamente di combattere contro di loro. In questo modo la politica di Mihajlovic entrò in collisione con la politica di Londra, a cui interessava una cosa sola: che ci fosse un movimento di resistenza che combattesse contro i tedeschi. La limitata capacità politica dei capi cetnici emerse alla fine del 1943, quando si fece pressante la necessità di affiancare al ramo militare dei cetnici un movimento politico (Unione nazionale democratica jugoslava) che fosse capace di attirare un certo seguito popolare. Naturalmente i partigiani avevano seguito una strada opposta, iniziando subito ad agire sul piano politico. Gli italiani, che si erano dimostrati favorevoli ai serbi nel momento del massacro operato dagli ustascia croati, riuscirono con grande intelligenza ad allacciare rapporti di collaborazione con i cetnici per operare in maniera congiunta contro i partigiani. Invece i tedeschi rimasero diffidenti, mentre i croati rimasero sempre contrari ad una collaborazione con i cetnici, anche se poi pure loro ne accettarono il supporto in alcune operazioni contro la resistenza dei titini.
Il libro mette in luce anche i vari comandanti serbi, le loro posizioni politiche ed il loro comportamento in battaglia. Uno dei capi più importanti fu sicuramente il pope Djujic, che operava nel settore della divisione Sassari. Egli si avvicinò quasi subito agli italiani, esprimendo la riconoscenza per la protezione offerta agli ortodossi. Col tempo, il pope raccolse molti combattenti, che rimasero ai suoi ordini fino alla fine della guerra. Un capo importante, situato nella Bosnia orientale, era Jevdjevic, un altro era il vojvoda Trifunovic. Ognuno di questi capi era rimasto traumatizzato dalla violenta repressione croata ed aveva apprezzato la politica italiana, generalmente sviluppata dai militari, nei confronti della popolazione ortodossa. Col tempo, le posizioni dei capi cetnici favorevoli all’Italia influenzarono quelli che in un primo momento non volevano impegnarsi a combattere assieme agli occupanti. La collaborazione si sviluppò sul piano militare in due modi. Il primo prevedeva che gli italiani organizzassero delle unità formate da serbi, le cosiddette Milizie volontarie anticomuniste (MVAC), il cui obiettivo era combattere contro i partigiani. Ad un certo punto, agli inizi del 1943, combattevano con gli italiani almeno trenta battaglioni di MVAC, con circa 10.000 combattenti. L’altro sistema era l’impiego a fianco delle truppe italiane d’unità cetniche variamente organizzate. Sul piano operativo questo sistema misto funzionò abbastanza efficacemente, ed i partigiani subirono diverse sconfitte. In realtà, la situazione era altalenante, perché anche i partigiani ebbero diversi successi contro i nazionalisti serbo-ortodossi. La situazione cetnica fu quindi fortemente determinata dai rapporti con gli italiani, che svolsero un ruolo di primo piano nel loro armamento, cercando sempre di non eccedere perché tutti sapevano quali erano i loro obiettivi a guerra finita. Dopo la sconfitta italiana, i cetnici persero progressivamente la loro forza. Alla fine della guerra in Jugoslavia non arrivarono né gli inglesi né gli americani ma i russi, e il movimento partigiano di Tito acquisì una forza imponente. I cetnici dovettero spostarsi dalle loro zone d’origine cercando di riorganizzarsi in Slovenia, mentre Mihajlovic si spostò in Serbia, dove fu catturato e dopo un processo subì una condanna a morte.

Antonio Sema

INTRODUZIONE

I cetnici furono tra i protagonisti della Seconda guerra mondiale in Jugoslavia. Organizzati in gruppi di autodifesa arruolati a livello locale, in bande di contadini combattenti e predatori, in formazioni ausiliarie antipartigiane, questi serbi ortodossi costituirono il tentativo, operato da parte degli ufficiali dell’esercito jugoslavo, di creare una forza combattente con cui dare un’attiva risposta alle necessità imposte dalla guerra, dall’occupazione e dal conseguente stato di anarchia in cui venne a trovarsi la Jugoslavia la cui fragilità era determinata dalle differenze etniche, culturali e religiose oltre che dalla frammentazione sul piano politico e amministrativo.
Non è certo semplice riuscire a definire in modo chiaro e a collocare senza problemi in uno dei due grandi schieramenti che si confrontarono in Jugoslavia nel corso del conflitto, il movimento cetnico. Per gli obiettivi a lungo termine e per l’iniziale attività di resistenza all’invasore è indubbia la sua collocazione nello schieramento contrapposto all’Asse; per le scelte operate in un secondo tempo, sulla base delle complesse circostanze che lì si vennero a determinare, e per la collaborazione, pur diversificata in base ai tempi e ai luoghi nonché a considerazioni tattiche, che offrì ai tedeschi e, soprattutto, agli italiani, il fenomeno è ascrivibile alla storia del collaborazionismo, anche se di un collaborazionismo del tutto particolare, concepito come una necessità, un male minore in attesa della liberazione ad opera degli Alleati. In entrambi i casi emerge la notevole difficoltà di ridurre e delimitare entro schemi precisi e inequivocabili un fenomeno tanto complesso come quello dell’atteggiamento dei serbo-ortodossi in generale, e dei cetnici in particolare, di fronte alla guerra.
I cetnici costituirono al tempo stesso un movimento di resistenza e di collaborazione che si sviluppò in diversi gradi e modi dovuti alla pluralità di situazioni che si manifestarono in Jugoslavia sul piano politico, militare, etnico e religioso. Diretto e animato da ufficiali serbi fedeli alla monarchia e al governo esiliato a Londra, non sostenuto, se non in misura molto limitata, da sentimenti di «simpatia politica» per i regimi di Roma e Berlino, il movimento cetnico mirò in origine a creare un’organizzazione il cui obiettivo avrebbe dovuto essere – oltre quello di fornire alle forze alleate informazioni importanti relative alla situazione bellica nei Balcani e di sviluppare attività nelle retrovie nemiche in attesa di uno sbarco anglo-americano – la conquista del potere nel momento in cui i tedeschi e gli italiani si fossero ritirati.
Tutto ciò, nelle intenzioni della leadership cetnica, avrebbe dovuto essere fatto con una prudenza tale da evitare l’abbattersi della repressione sulla popolazione civile. Non potendo affrontare in modo aperto lo scontro con il nemico, occorreva, in attesa della liberazione da realizzare con le forze alleate, sviluppare attività di intelligence e compiere atti di sabotaggio, rinviando la resa dei conti con l’occupante. Questo fu in parte possibile nonostante e grazie alla brutalità del sistema repressivo messo in atto da italiani e tedeschi senza disporre tuttavia di una omogeneità di comportamenti e di una totale comunanza di obiettivi con l’alleato Stato Indipendente di Croazia la cui violenta politica antiserba contribuì ad accendere un’aperta rivolta nelle parti del Paese a predominanza ortodossa. La nostra attenzione si concentrerà in questa sede soprattutto sui cetnici operanti, al fianco degli italiani, nell’area croata, anche se faremo, via via, riferimento a quelli del Montenegro, della Slovenia e della Dalmazia italiana oltre che della Serbia. Analizzeremo le vicende di cui si resero protagonisti sia quelli dipendenti e inquadrati all’interno del Regio esercito nella Milizia Volontaria Anti Comunista, sia quelli che lo affiancarono in maniera autonoma, offrendo una collaborazione tattica e militare, nella Lika, nella Bosnia-Erzegovina e nella Dalmazia.
In Jugoslavia queste due forme di collaborazionismo si confusero spesso a seconda delle situazioni e della tipologia delle operazioni militari. Entrambe ebbero un ruolo importante nel reprimere l’attività del movimento partigiano in Slovenia, Dalmazia e nei territori occupati dell’Indipendente Stato di Croazia dove i comandi militari italiani avrebbero voluto poter fare affidamento sull’esercito di Paveli c , costituito da domobrani e da miliziani ustascia, spesso inaffidabili, certo poco preparati a combattere un movimento di resistenza sempre più agguerrito e motivato.
A causa poi dei contrasti con lo Stato croato gli italiani cercarono di irregimentare il maggior numero di volontari nelle MVAC così da subordinarne l’attività al Regio esercito e impedire che andassero a infoltire le schiere della resistenza. I cetnici furono il più importante movimento politico della Jugoslavia a offrire una collaborazione tattica e militare, in parte autonoma in parte subordinata, al Regio esercito. Nelle regioni croate occupate dagli italiani le loro bande ebbero quale comune denominatore l’odio per il governo di Zagabria e la volontà di lottare senza tregua contro i partigiani comunisti, in vista dell’obiettivo finale: la creazione di una Grande Serbia indipendente.
Dopo otto mesi di occupazione le forze dell’Asse erano riuscite a reprimere le rivolte armate in molte regioni della Jugoslavia, come la Serbia e il Montenegro, ma non a distruggere la leadership della resistenza comunista. In certe aree, soprattutto periferiche e montane, laddove mancava una effettiva e costante autorità, la situazione risultò caotica anche per una sorta di guerra civile a intermittenza. Nel Montenegro le forze di occupazione italiane affidarono gran parte del protettorato agli ufficiali cetnici separatisti che guardavano a Mihajlovi c . Nella Bosnia e nell’Erzegovina, etnicamente miste, la lotta infuriò con maggiore intensità e si contesero le zone di influenza italiani e tedeschi, musulmani, nazionalisti serbi e croati.
La guerra più crudele non fu quella contro l’invasore bensì proprio quella che le varie forze locali combatterono tra loro. In una Jugoslavia occupata, ma non pacificata, dalle forze dell’Asse, con zone in preda all’anarchia, si svilupparono tre guerre: quella contro le forze di occupazione; quella civile tra serbi-ortodossi da un lato e croati e musulmani dall’altra; quella, interna ai serbi, tra il movimento cetnico e quello della resistenza partigiana, cui solo dalla seconda metà del 1943, si unì un consistente numero di croati.
Oltre a quella contro gli occupanti, Tito e Mihajlovi c , in un primo tempo alleati, portarono avanti, per propria volontà e per costrizione degli eventi, la loro lotta che dalla fine del 1941 si sviluppò sempre più nella parte occidentale del Paese, dove il movimento cetnico era dominato da una leadership locale che combatté una sua guerra civile contro i partigiani e contro la popolazione cattolica e islamica dello Stato croato, con il sostegno indiretto dell’esercito italiano, unico a potere e a volere, pure per fini propri, appoggiare un movimento nazionalista armato. Se il suo obiettivo a lungo termine consisteva nella liberazione del Paese dagli aggressori italiani e tedeschi, contro cui si sarebbe dovuta attivare prima o poi anche la resistenza armata, per il momento occorreva combattere Tito, il comunismo e i fascisti croati, tenendo sotto controllo i musulmani.
Fu sulla base di tali considerazioni che gli ufficiali e i notabili civili alla guida del movimento cetnico cercarono la collaborazione su base locale con i vertici militari italiani, nonostante l’opposizione del nostro Comando Supremo e del ministero degli Esteri.
Nella contingenza della guerra in corso i cetnici si sarebbero accontentati dell’autonomia e dell’assicurazione dei propri diritti etnici e religiosi, reimpossessandosi dei beni loro sottratti dagli ustascia. Pur sapendo che i cetnici parteggiavano per gli inglesi, al cui fianco, al momento opportuno si sarebbero posti, rivolgendo le proprie armi contro gli italiani e i tedeschi, in considerazione della disponibilità a lottare contro le forze della resistenza, il Regio esercito volle assicurarsene la collaborazione. Nel caso di una sconfitta definitiva del movimento partigiano questa sarebbe diventata superflua e i cetnici, per i quali comunque era l’affiancamento a italiani e tedeschi costituiva una questione di convenienza a breve termine, sarebbero diventati inutili per gli occupanti; in una prospettiva a lungo termine non era da escludere tra cetnici e forze dell’Asse una vera e propria ostilità.
I tentativi di Mihajlovi c nel biennio 1942-1943 di ricondurre sotto un’unica leadership militare le varie branche del movimento non ebbe successo e spesso si venne a determinare uno stato di tensione tra gli ufficiali a lui fedeli e i portavoce, spesso civili, delle formazioni locali che tendevano più che altro a soddisfare le esigenze dei componenti di queste. Rispetto agli ufficiali, gli esponenti civili dei cetnici che parteciparono ai negoziati si rivelarono più malleabili e disponibili al dialogo e alla collaborazione con gli italiani e i tedeschi.
Con il passare del tempo il movimento cetnico nelle regioni a maggioranza serba della Jugoslavia dipese sempre più dalle forze occupanti che lo condizionarono in misura crescente riuscendo a ridurre l’influenza che sui comandanti delle varie formazioni esercitava Mihajlovi c , il quale alla fine del 1942 doveva mantenersi vigile per evitare che l’adozione di misure da parte degli italiani e dei tedeschi, infastiditi dal suo ruolo di supremo capo cetnico, potessero ridurre i vantaggi che i comandanti locali a lui in misura diversa legati erano riusciti a ottenere. Insomma, da allora in poi la sua autorità risultò piuttosto teorica, molto meno effettiva di quanto, da prospettive diverse e con diversi obiettivi, non volessero far credere i tedeschi – sempre sospettosi della minaccia serba – e gli Alleati con la loro propaganda degli ultimi due anni. Altrettanto va detto circa il potenziale militare dei cetnici la cui cooperazione i comandi italiani cercarono anche per ragioni diverse dalla necessità di contrastare la resistenza, prima fra tutte la volontà di condurre la guerra nei Balcani con propri obiettivi e con una certa autonomia dall’ingombrante alleato germanico, non secondo i termini dettati da questo. I comandi italiani tentarono di tenere le forze germaniche fuori delle zone di loro competenza e, al contempo, di mantenere intatte le proprie.
Molti serbi, specie nelle campagne e nelle zone periferiche desiderando sicurezza e protezione, ma anche per far bottino e operare vendette, furono indotti nei momenti di maggiore crisi a schierarsi, con le formazioni armate dei cetnici e dei partigiani; spesso nell’Erzegovina e in Montenegro tra il 1941 e il 1943 si verificarono passaggi da uno schieramento all’altro, rivelando come le considerazioni di carattere politico fossero di frequente meno determinanti di quelle dell’immediata convenienza.
In Bosnia i nazionalisti serbo-ortodossi combatterono gli ustascia, i tedeschi e i musulmani i quali, non diversamente da quelli del Sangiaccato, schiacciati tra serbi e montenegrini, si arruolarono in parte con le forze armate germaniche, in parte con le bande partigiane. L’odio cetnico per i musulmani, oltre che per gli ustascia, era determinato dal fatto che essi avevano massacrato inermi popolazioni ortodosse; la vendetta, operata con gli stessi mezzi e la stessa determinazione, assumeva quindi anche una connotazione religiosa, innescando una spirale di terrore e controterrore. Agli occhi dei cetnici il tradimento dei musulmani della Bosnia-Erzegovina e del Sangiaccato era in fondo soltanto la ripetizione di quello perpetrato nella Prima guerra mondiale, quando avevano fatto causa comune con gli Shultzkorps austroungarici.

Stefano Fabei

INDICE

Prefazione

Capitolo Primo
La Jugoslavia occupata: resistenza e collaborazionismo

Capitolo Secondo
Tito e Mihajlovic : le due resistenze

Capitolo Terzo
La Croazia alleato occupato

Capitolo Quarto
Contatti e intese degli italiani con i cetnici: Dobroslav Jevdjevic e Ilija Trifunovic

Capitolo Quinto
I cetnici verso la collaborazione armata con gli italiani

Capitolo Sesto
Le Milizie Volontarie Anticomuniste (MVAC)

Capitolo Settimo
I volontari cetnici nelle operazioni antipartigiane  

Capitolo Ottavo
Gli alterni rapporti tra italiani e cetnici

Capitolo Nono
Sviluppo e perfezionamento dell’organizzazione delle MVAC

Capitolo Decimo
I cetnici tra italiani e croati

Capitolo Undicesimo
Il ritiro dei presidi italiani e le diffidenze dei cetnici

Capitolo Dodicesimo
Divergenze italo-tedesche sull’atteggiamento da adottare con i cetnici

Capitolo Tredicesimo
Tutti alla ricerca di accordi con i cetnici

Capitolo Quattordicesimo
I cetnici del Montenegro in soccorso dei fratelli dell’Erzegovina

Capitolo Quindicesimo
L’aumento della pressione partigiana e la resistenza del pope Djujic

Capitolo Sedicesimo
I tedeschi e le proposte di Tito per eliminare i cetnici

Capitolo Diciassettesimo
I tentativi tedeschi di disarmare i cetnici

Capitolo Diciottesimo
Il cambio di condotta tedesca e la ricerca di una collaborazione con i cetnici

Capitolo Diciannovesimo
Le operazioni Lika e Dinara e i cetnici del pope Djujic

Capitolo Ventesimo
Cetnici e serbi davanti al 25 luglio e al crollo del regime fascista

Capitolo Ventunesimo
Il progressivo declino e la fine dei cetnici

Bibliografia

Note

Indice dei nomi

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