GUERRA E PROLETARIATO


INTRODUZIONE

«NOI STIAMO CON QUEL POPOLO CHE DIFENDE LA SUA INDIPENDENZA »

Il lavoro di Stefano Fabei costituisce la più ampia e documentata ricerca sul complesso e articolato dibattito e sulla molteplicità delle motivazioni che portarono i sindacalisti rivoluzionari a farsi tra i più agguerriti fautori dell’interventismo.
Operando una puntuale consultazione di tutta la pubblicistica disponibile e recuperando contributi e interventi pubblicati in riviste ormai introvabili e rarissime, quali per esempio «L’Internazionale», organo dell’organizzazione sindacalista di Parma, Fabei ha poi proceduto a montare tutto il materiale in maniera efficace e pertinente riuscendo a cogliere e a farci visualizzare i passaggi essenziali di quel dibattito, le polemiche, le divisioni e le ricomposizioni avvenute in un frangente drammatico della storia italiana del Novecento.
Offrendo materiali e documentazioni di prima mano, l’autore ci permette quindi di avvicinarci a quelle complesse tematiche senza scontare la prospettiva imperfetta suggerita dalle lenti ideologiche con le quali la storiografia ufficiale ha sempre indagato su questo fenomeno.
L’importanza del lavoro consiste quindi nel fatto di proporre in maniera analitica e depurata da ogni intenzione manipolatoria, una serie di successivi e progressivi passaggi teorico-politici attraverso i quali giunge a maturazione una proposta originale che pur senza mai definirsi in maniera monolitica e lasciando invece ampi margini alla pluralità di accenti esistenti al proprio interno, si è caratterizzata per l’ostinata volontà di ricercare la possibilità di addivenire a una sintesi di socialismo e nazionalismo.
Una sintesi qualificata non nel senso di una mera ibridazione però, dal momento che entrambi i termini della nuova sintesi non dovevano essere recepiti nelle loro forme storiche tradizionali. Non si voleva soltanto superare l’espressione della loro parzialità, cioè la loro strutturale incapacità, in quanto solo socialismo o solo nazionalismo, a rappresentare quel progetto di emancipazione non solo economica e politica ma anche culturale e spirituale delle classi lavoratrici, ma si voleva anche sostenere che entrambi i termini andavano rivisitati e riattraversati criticamente alla luce dei loro esiti fallimentari nelle nuove circostanze storiche enfatizzate dalla guerra mondiale alle porte.
Nessun dubbio che proprio questa caratteristica «eretica», questa irriducibilità a farsi inserire all’interno delle grandi chiese dell’ortodossia ideologica rappresentate dal fascismo e dal comunismo cristallizzato nella vulgata marxista-leninista, che dal momento della loro affermazione storica hanno sovradeterminato tutta la scena politica, ideologica e culturale del Novecento, proiettando il proprio dominio anche a ritroso nel tempo, riducendo ogni fenomeno pregresso a prefigurazione, avanguardia, prodromo o cripto-fenomeno di una delle due polarità, ha costituito la premessa per l’oblio progressivo che su questa esperienza è stato fatto calare e dal quale anche questo lavoro di Fabei può invece contribuire a salvare.
Il valore dell’operazione non è racchiuso soltanto nel fornire elementi per una autentica, ponderata e veritiera ricostruzione storica, ma soprattutto nell’indicare una traccia degna di essere inseguita da quanti ritengono possibile almeno una parziale ricostruzione di alcuni orientamenti e di alcuni elaborati del sindacalismo rivoluzionario nell’attuale contesto caratterizzato dal definitivo tramonto della sferragliante idea premarxista – poi trapassata nel cosiddetto «socialismo scientifico» e giunta fino a noi – secondo la quale l’inevitabile declino dello Stato-nazione dovesse evolvere nella direzione di un astratto universalismo dei popoli.
La direzione storica nella quale è andato il processo è stata invece quella del mondialismo , cioè dell’affermazione di un governo mondiale nel quale l’universalismo ha assunto i caratteri di omologazione planetaria attraverso l’azzeramento delle differenze e delle diversità sotto il dominio culturale e spirituale – oltre che economico, industriale e militare – delle forze capitalistiche imperialiste.
Un processo, tuttavia, che trova crescenti opposizioni. Infatti non è possibile stilare oggi una nappa dei conflitti contemporanei e un catalogo dei principi e dei valori nel nome dei quali sono attive queste opposizioni, senza ammettere la dimensione decisiva giocata dai movimenti di liberazione nazionale che non solo «mettono in discussione… il dominio sul e nel proprio territorio», ma soprattutto recuperano all’interno di questo scontro «un pezzo dell’identità collettiva (l’appartenenza etnico-culturale)»[1].
Anche al di là della sua intrinseca validità sul piano culturale e della ricostruzione storica, ancora una volta esiste quindi anche una ragione «militante» che presiede alla scelta della pubblicazione, da parte delle edizioni Barbarossa, di questo testo. Dalle pagine di Fabei emerge in tutta evidenza e con estrema chiarezza la molteplicità dei percorsi, delle suggestioni, degli orientamenti e dei riferimenti teorici e politici che conducono i sindacalisti rivoluzionari italiani a proporsi quali accesi sostenitori dell’intervento. All’interno delle loro motivazioni si enfatizza la necessità di uno scatto inventivo capace di permettere di sottrarsi agli schemi astratti che non sono più in grado di illuminare l’azione rivoluzionaria in una situazione eccezionale e per certi versi imprevista – come tutto sommato imprevista fu la débâcle dei socialisti tedeschi e il loro collaborazionismo filo imperialista. Sul piano quindi della necessità di adeguare i propri compiti alle mutate condizioni internazionali dello scontro di classe, l’atteggiamento dei sindacalisti interventisti si poneva sul terreno della rottura radicale con determinate categorie politiche del passato, tuttavia, si è visto anche nell’esposizione delle proprie ragioni da parte di Panunzio, la ricerca di questa nuova prospettiva e la messa a punto di nuove categorie dell’analisi e dell’azione rivoluzionaria avveniva anche nel solco della continuità con la tradizione storica del movimento operaio, tradizione che peraltro si trattava di disseppellire dalle macerie seminate dall’opportunismo pacifista e parlamentarista che era dilagato in tutti i partiti socialisti della II Internazionale.
Da un certo punto di vista ha pienamente ragione Panunzio quando dichiara che, in merito alle posizioni sulla violenza e la guerra, non lui, ma piuttosto i socialisti neutralisti sono i veri «eretici»: ben presto sarà Lenin a dimostrate che effettivamente la guerra, accelerando tutti i fattori di crisi latenti negli stati borghesi, può rappresentare lo scenario più favorevole per l’insurrezione, a patto che esista l’avanguardia armata della più determinata soggettività e della consapevole disciplina che solo un partito organizzato come partito di combattimento è in grado di praticare. Ma la distanza che separa i socialisti italiani dai bolscevichi è una distanza stellare non solo sul piano della teoria e dell’organizzazione; vi è una distanza, come dire?, antropologica: i socialisti italiani stanno ai bolscevichi come un circolo dopolavoristico ai reparti speciali di un esercito moderno!
Per spiegare questa differenza basta considerare che le origini stesse del socialismo italiano stanno nel millenarismo pacifista di un Prampolini e nel riformismo turatiano, origini che per altro si alimentavano traendo spunti dal complesso di incrostazioni socialdemocratiche, positivistiche e fatalistiche che si erano sedimentate sul marxismo nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento. E non è nemmeno un caso che una concezione rivoluzionaria volontaristica e non negatrice della necessità dei ricorso alla violenza – questa «levatrice della storia» secondo la famosa definizione di Marx – in Italia era stata rimessa in circolo dal revisionismo di sinistra di matrice soreliana come è stato affermato dallo stesso Lenin [2] che riconoscendo questo ruolo del revisionismo di sinistra ha ammesso che nei paesi latini questa tendenza si manifestava e si incarnava come «sindacalismo rivoluzionario».
In un articolo dei 1898, «La necessità e il fatalismo nel marxismo», Sorel aveva scritto: Leggendo le opere dei socialisti democratici si rimane sorpresi della sicurezza colla quale essi dispongono dell’avvenire: essi sanno che il mondo cammina verso una rivoluzione inevitabile… essi hanno una tale fiducia nelle loro teorie che finiscono nel quietismo.
In effetti la critica di Sorel coglie nel segno sostenendo che per i socialisti l’evoluzione sociale si configura come processo naturale che si deve compiere a prescindere da qualsiasi sforzo umano, quasi che non restasse altro fare che incrociare le braccia e attendere che il frutto sia maturo per coglierlo. Sono quindi i sindacalisti rivoluzionari, che accettano questa reazione volontaristica al determinismo e al fatalismo quietista del socialismo riformista, che si pongono in Italia come gli interpreti più autentici di quel marxismo che Arturo Labriola riconosceva essere essenzialmente «una teoria dell’azione», alla quale conformarsi tenendosi, all’opposto, il più lontano possibile «dalla grossa volgare del marxismo e da quella dell’Engels».
Di passaggio si potrebbe introdurre qui l’argomentazione che, probabilmente, il motivo del fallimento del sindacalismo rivoluzionario nell’immediato dopoguerra è largamente determinato dall’aver atteso troppo a lungo a separarsi da questo socialismo quietista e riformista, la cui autentica natura opportunista e conservatrice è stata compresa solo proprio alla vigilia della drammatica emergenza rappresentata dalla guerra, quando ormai è forse troppo tardi, ma l’approfondimento di questo tema ci porterebbe ad affrontare le tematiche relative allo scontro politico dell’immediato dopoguerra, fuori cioè dall’oggetto della presente introduzione [3].
Qui preme, piuttosto, concentrare la nostra attenzione su di una questione assai controversa in sede storiografica e che riguarda l’esatta definizione di quanto la svolta interventista del 1914 rappresenti una totale e radicale rottura rispetto alla precedente tradizione del sindacalismo rivoluzionario e, prima ancora, su quali contenuti opererebbe tale rottura.
Infatti, come si è visto, se l’atteggiamento degli interventisti nei confronti della guerra rappresentava una rottura radicale con una tradizione socialpacifista divenuta e per nulla appartenente alle autentiche premesse del socialismo rivoluzionario, occorre vedere qual è, allora, la vera portata innovativa, l’elemento caratterizzante che permette di configurare il sindacalismo rivoluzionario come una delle principali componenti che daranno vita a una ipotesi politica che forse è possibile individuare come tendenza nazional-rivoluzionaria che per quanto emarginata e rimossa dalla successiva affermazione delle due grandi ortodossie fascista e comunista, possa tuttavia essere riconosciuta in quanto dotata di una propria legittima autonomia e una caratteristica identità.
Per fare luce nell’individuazione di questi caratteri innovativi bisogna ricorrere e rifarsi alla produzione teorica dei sindacalisti rivoluzionari – Bianchi, Corridoni, Amilcare De Ambris, Deffenu, Olivetti e Rossi – raccolti attorno alla nuova serie della rivista «Pagine Libere» che, in un certo senso, sarebbe stata l’organo del Fascio Rivoluzionario di Azione Internazionalista: è proprio attraverso questa rivista che si produce la chiarificazione ideologica dell’interventismo che è, nello stesso tempo, da una parte un’opera di riattraversamento critico della tradizione politica e teorica del sindacalismo rivoluzionario attraverso il bilancio di un’esperienza ormai ventennale e dall’altra individuazione del nocciolo essenziale che configurerà il sindacalismo rivoluzionario come fenomeno originale, autonomo e indipendente rispetto alle altre dottrine politiche, sia precedenti che successive, nocciolo rappresentato dall’imperativo di «coordinare la rivoluzione sociale col fatto nazionale». La nuova concezione sindacalista del rapporto guerra-rivoluzione muove innanzi tutto dalla constatazione che non si afferma e non si realizza ancora il declino dello Stato-nazione a favore di quell’universalismo dei popoli preconizzato da Marx, ma, subito dopo, dalla presa di coscienza che gli stessi processi costitutivi dell’identità del proletariato non si fondano esclusivamente sull’appartenenza di classe, ma anche sull’appartenenza etnico-culturale, facendo cioè riferimento a origini, tradizioni e radici ben piantate all’interno di dinamiche collettive determinate territorialmente che possono, e anzi sono, in contraddizione con le frontiere statali storicamente determinate. Infatti, fermo restando che l’origine della prima guerra mondiale per i sindacalisti trova spiegazione essenzialmente con l’appetito imperialistico degli imperi centrali, è del tutto evidente che proprio in questa contraddizione affondano le radici la «questione slava» e lo stesso «irredentismo» italiano. In termini sintetici si può dire che, dal punto di vista della messa in discussione dell’ortodossia socialista, ciò che si intende superare è il dogma marxista secondo cui «il proletariato non ha nazione».
Dal punto di vista storiografico è importante stabilire che l’affacciarsi di questa problematica non costituisce affatto – come vorrebbe la tradizione storiografica di sinistra – una repentina e fulminante conversione, quasi una mutazione genetica del sindacalismo rivoluzionario, in quanto si tratta, al contrario, del venire a maturazione di orientamenti ideologici e politici che affondano le radici almeno nel dibattito prodottosi ai tempi della guerra di Libia. Già in quella occasione, infatti, Arturo Labriola [4] aveva affermato che se si ammette che lo sviluppo dei proletariato dipende da una forma di cultura nazionale o determinata dalla tradizione storica, si deve anche ammettere che il proletariato non possa negare il suo contributo di sangue a una guerra la quale tenda appunto a salvaguardare il regolare sviluppo della civiltà locale, e successivamente aveva storicizzato l’affermazione del Manifesto del partito comunista secondo la quale «il proletariato non ha nazione» come descrizione pertinente di una realtà nella quale il proletariato del tempo di Marx si trovava a vivere: realtà fatta di durissime condizioni economiche non meno che di totale esclusione dalla sfera dei diritti civili e politici. Lo spirito di appartenenza a una comunità che trascenda i confini di classe, col riconoscimento di una comunanza di lingua, di cultura e di tradizioni, si manifesta nella classe operaia solo nella misura in cui essa possa trarre determinati e significativi benefici dalla propria effettiva inclusione nell’organizzazione della vita nazionale ai vari livelli, nessuno escluso: il benessere economico, l’istruzione e la cultura, i diritti politici e la stessa partecipazione all’amministrazione e al governo. Solo a queste condizioni gli operai non esiteranno a difendere lo spazio nazionale e culturale cui appartengono, perché solo a queste condizioni lo avvertono come proprio, corrispondente e indispensabile al proprio sviluppo. Persino Prezzolini aveva riconosciuto che la mancanza di spirito patriottico fra gli operai non era tanto la negazione dell’idea di patria, quanto la negazione pratica della «patria di lor signori», per la quale avrebbero dovuto versare il proprio sangue mentre la borghesia gli ha tolto tutto quello che poteva dargli un senso di patria [5].
Per Labriola, quindi la nazione può rappresentare effettivamente un riconosciuto quadro di riferimento solo se i lavoratori, ovvero la maggioranza dei popolo, può trovare in esso significativi elementi di identificazione, se in esso può trovare la propria adeguata collocazione. Correlativamente è vero altresì che lo stesso processo di costituzione nazionale può dirsi effettivamente compiuto solo allorquando si sia realizzata l’inclusione della maggioranza del popolo all’interno delle istituzioni economiche politiche e culturali della vita nazionale. Questo è il principio che concorre alla definizione del concetto di nazionalismo proletario che si differenzia in maniera sostanziale dalla concezione del nazionalismo conservatore o tradizionale alla Corradini: il nazionalismo proletario non è il carattere distintivo di una nazione che giace in condizioni di inferiorità rispetto ad altre nazioni, ma il carattere distintivo di una comunità nazionale che ha ricomposto armonicamente l’equilibrio fra le sue parti costitutive riconoscendo alle classi lavoratrici, il pieno diritto a esercitare tutte le funzioni di comando e di governo che spettano loro. Questo, in ultima analisi, è il testimone che ci consegna l’epopea del sindacalismo rivoluzionario: il sogno reiterato di realizzare il principio di nazionalità attraverso l’emancipazione delle classi lavoratrici nel solco della rivitalizzazione delle nostre più genuine tradizioni culturali e spirituali, come piena affermazione di indipendenza e autonomia, a tutti i livelli, contro l’imposizione della colonizzazione mondialista.

Enrico Galmozzi

NOTE
[1] Giovannini F., Se tornasse il comunismo , Il Minotauro, Milano, 1995, p. 70.
[2] Lenin, Marxismo e revisioniamo, Opere scelte , Mosca, 1949, vol. I.
[3] Per una sommaria trattazione di questa problematica rimando al mio saggio introduttivo a Guido Carli, Il nostro bolscevismo, Barbarossa, Milano 1996.
[4] Labriola A., Intorno all’herveismo , in «Pagine Libere», 1° ottobre 1907.
[5] Prezzolini G., La teoria sindacalista , Napoli, 1909, p. 123.

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