I NERI E I ROSSI


PRESENTAZIONE

L’attenta e documentata ricostruzione di Stefano Fabei sulla politica dei «ponti» – e cioè dei tentativi operati al crepuscolo della RSI per realizzare un passaggio «indolore» dei poteri tra fascismo repubblicano e CLN, nonché per evitare la resa dei conti e il relativo bagno di sangue – costituisce un’importante pagina che colma un’evidente lacuna nella storiografia sulla fase finale della guerra civile. Finora, infatti, salvo alcune valide ricostruzioni di vari aspetti del problema, che appare, ogni volta che lo si approfondisce, sempre più complesso, mancava una ricostruzione completa degli avvenimenti; ma soprattutto mancava un’analisi delle aspirazioni e degli obiettivi che i vari protagonisti si posero in questa controversa vicenda. Questo di Fabei è uno di quei saggi storici che non abbisogna di alcuna guida alla lettura da parte del prefatore, per quanto chiaro e lineare risulta il percorso attraverso il quale l’Autore ci guida nei meandri di un anno e mezzo di contatti, rapporti, tranelli, doppi giochi, che spesso hanno nascosto i reali intendimenti di chi in questa iniziativa fu coinvolto. Pertanto, introdurre una ricerca come questa significa soprattutto dare spazio alle riflessioni che l’ottimo lavoro di Fabei suggerisce, al fine di offrire un contributo interpretativo ulteriore. Una delle questioni più complicate è comprendere quali obiettivi avrebbero voluto raggiungere coloro i quali si imbarcarono in questa iniziativa apparentemente senza prospettive. In primo luogo, occorre ricordare che la politica dei «ponti» venne posta in atto quando (da tempo) risultava evidente l’impossibilità di ipotizzare una soluzione vincente per il fascismo e per la RSI e soprattutto quando i tre presupposti con i quali Mussolini intendeva connotare l’esperienza repubblicana erano falliti: la costituzione di un esercito autonomo impiegato in azioni di guerra tardava a realizzarsi e in ogni caso determinava il grave problema della renitenza alla leva e del conseguente rafforzamento delle formazioni partigiane; era fallita (non se ne parlava praticamente più) la Costituente, rimandata a un improbabile dopoguerra; non era decollata la socializzazione delle imprese. La politica dei «ponti», quindi, nasceva non già come variante tesa a rafforzare lo Stato fascista repubblicano, allo scopo di poter finalmente vedere realizzate le famose riforme sociali che avrebbero dovuto essere il cavallo di battaglia (forse anche l’arma vincente) della Repubblica di Mussolini. Le riforme sociali risultarono, nella seconda metà del ’44, ormai impossibili a realizzarsi: la stessa socializzazione delle imprese – la riforma più evocata e più discussa – venne varata soltanto nei primissimi mesi del ’45, quando ormai non c’era più nulla da fare. Per cui, un realista come Mussolini, nel discorso al Lirico di Milano, parlò delle «mine sociali» con le quali disseminare le valli del Po, allo scopo evidente di farle scoppiare in un «dopo» i cui contorni sfuggivano ai più. Renzo Montagna, in seguito, ricordava che delle mine sociali si parlava come di «un uovo di vipera nel nido di chi sarebbe venuto dopo».1 Si trattava di un perfido «regalo» da offrire a chi avrebbe governato l’Italia dopo la fine della guerra e del fascismo: se fosse stato un governo socialista, allora il fascismo avrebbe potuto dire di aver ben seminato. Se fosse un governo conservatore, le mine sarebbero esplose coinvolgendo (così almeno si sperava) un popolo che dopo vent’anni di dittatura non avrebbe potuto rinunciare allo Stato sociale e alle avanzate riforme che il regime aveva costruito. Nessuna delle due ipotesi si verificò, com’è noto: anzi, proprio il clima politico realizzatosi durante i governi centristi consentì di disinnescare, una ad una, le mine mussoliniane e il quadro sociale del dopoguerra ebbe non pochi elementi di continuità.2 In realtà, a ben vedere, la politica dei «ponti», oltre alle motivazioni che si sono dette, costituiva un ingenuo tentativo di condizionare la politica italiana dopo la fine del conflitto. Ingenuo, perché a molti protagonisti della politica dei «ponti» (ma non a Mussolini) in certi momenti sembrava sfuggire il fatto che dopo la guerra si sarebbe aperta una nuova fase conflittuale, quella tra comunisti e occidentali: e il problema delle mine sociali sarebbe stata una questione ben marginale rispetto alla suddivisione geopolitica dell’Europa. Il lavoro di Fabei porta a riflettere su tre questioni fondamentali: la prima è quella degli scopi che i protagonisti si prefiggevano; la seconda attiene al problema dell’interpretazione del fascismo, non solo quella maturata nei seicento giorni di Salò, ma soprattutto quella che venne consegnata al neofascismo nel dopoguerra; la terza è il ruolo di Mussolini nella complessa questione dei «ponti». Vediamo, in primo luogo, il problema degli scopi che gli attori di questa vicenda – ben descritti, anche dal punto di vista psicologico, da Fabei – si proponevano. Una delle questioni centrali dell’iniziativa (e del fallimento) dei «ponti», infatti, è proprio la mancanza di un progetto unitario o, per meglio dire, l’assenza di omogeneità nelle motivazioni che portavano a quel progetto. Incominciamo dagli attori di parte fascista. Per alcuni la politica dei «ponti» fu un modo per sottolineare la vocazione sociale (e socialista) del fascismo repubblicano: è il caso di Ugo Manunta, un sindacalista che già nel ventennio si era segnalato per posizioni radicalmente rivoluzionarie. Ma era l’unico, o quasi, in campo fascista a considerare la questione sociale il vero e unico problema. Per molti altri, la questione sociale fu un mezzo per arrivare altrove. Ad esempio, per riuscire a sconfiggere, in «zona Cesarini», la battaglia contro gli intransigenti: è il caso di Biggini, ministro dell’Educazione Nazionale e insigne costituzionalista, monarchico, per il quale la socializzazione e le riforme sociali costituivano un mezzo per ipotizzare un fascismo diverso, finalmente, a Salò; è il caso di Renzo Montagna, un altro dei protagonisti, il quale non era certamente uomo di sinistra: generale della Milizia, partecipò al processo contro Ciano e i «traditori» del 25 luglio e votò perché fosse salvata la vita a cinque dei sei imputati. Nominato capo della polizia della RSI, si batté contro il proliferare di bande più o meno regolari che si erano assunte autonomamente ruoli istituzionali di polizia. Anche Cione, astuto e con mal represse manie di protagonismo, filosofo ex crociano, era tutt’altro che un uomo della sinistra sociale: egli ricordava, in piena RSI, che l’Italia era la patria di Beccaria e che troppa illegalità rivoluzionaria non era né opportuna, né giusta. Mussolini gli lascerà fondare il suo Raggruppamento dal vago sapore mazziniano, un po’ socialista, un po’ nazionalista, soprattutto per dimostrare agli intransigenti che era autonomo e quindi credibile. Rispetto al Raggruppamento, Pini osservò le difficoltà tra le quali il filosofo si muoveva: «Naturalmente davanti agli antifascisti il raggruppamento era svalutato sul nascere per il solo fatto di essere consentito, mentre la funzione critica che si assumeva urtava la mentalità dei fascisti intransigenti».3 Dopo la guerra Cione fondò un giornale moderato nel MSI, «Nazionalismo sociale», e concluse la sua carriera politica prima «laurino», poi democristiano. Un altro importante esponente della politica dei «ponti» fu Piero Pisenti, onesto e intelligente ministro della Giustizia a Salò, contrario a quell’abnorme e «rivoluzionaria» procedura di retroattività che fu il processo di Verona, con la quale furono eliminati i «congiurati» del 25 luglio. Biggini, Cione, Montagna, Pisenti, Gorrieri, il prefetto Nicoletti e i militari Nicchiarelli, Diamanti, Borghese e Nunzio Luna (personaggio quant’altri mai enigmatico) vollero, ciascuno alla propria maniera, interpretare la RSI come una dura necessità, più in linea con una continuità verso il passato che come inveramento rivoluzionario del fascismo. Per questi motivi cercarono, d’accordo con Mussolini, di condurre la RSI verso la legalità e fuori dal settarismo di Pavolini o di Mezzasoma; non ci riuscirono e, fino alla fine, sperarono, aprendo una trattativa con i moderati dello schieramento avverso, di poter addivenire a un accordo che, oltre ad evitare un bagno di sangue fraterno, potesse riconoscere validità e dignità a chi aveva fatto la scelta per il fascismo repubblicano. Costoro, tra l’altro, speravano che nella stampa della Repubblica si venisse ad aprire un dibattito su tali temi: necessità di una costituente, elaborazione di una costituzione, fine del sistema monopartitico, libertà di stampa effettiva, riforme sociali: insomma un reale e radicale rinnovamento del fascismo che avrebbe dovuto abbandonare progressivamente la dittatura e l’imbarazzante alleanza con i tedeschi per tornare ad essere un movimento di libertà e di critica. Per un certo periodo ciò fu possibile e si schierarono coraggiosamente con questa corrente molti tra i migliori giornalisti della RSI: da Concetto Pettinato a Mirko Giobbe, da Ugo Manunta a Franco De Agazio, da Ezio Maria Gray a Giorgio Pini, da Carlo Borsani a Giuseppe Castelletti. Ma, a un certo punto, la questione identitaria ebbe il sopravvento e Pavolini, Mezzasoma e il suo giovane capogabinetto, Giorgio Almirante, sostenuti da Farinacci, si scagliarono contro gli «aperturisti» e fecero tacere le voci più coraggiose: in primo luogo Concetto Pettinato, l’autore del celebre articolo Se ci sei, batti un colpo che gli costò una sospensione dalla direzione de «La Stampa», era tra quelli che maggiormente avevano sostenuto i «ponti», fu liquidato da Mezzasoma per avere auspicato, nel marzo del ’45, l’incontro fra gli italiani «al di sopra delle baionette straniere », uno dei temi centrali della politica dei «pontieri».4 Anche Giobbe fu esonerato da Mezzasoma nell’aprile ’44 dalla direzione de «La Nazione»; Castelletti un mese dopo dovette lasciare la direzione de «L’Arena» di Verona; Borsani nel luglio successivo, dopo i durissimi attacchi di Farinacci fu sostituito da Enzo Pezzato alla guida di «Repubblica fascista»); Manunta, direttore de «La Sera» di Milano, nell’ottobre ’44 fu trasferito all’appena costituito ministero del Lavoro; De Agazio, direttore di «Rinnovamento» finì addirittura in galera; soltanto Pini riuscì a restare alla direzione de «Il Resto del Carlino», con molta fatica, soprattutto perché bene appoggiato direttamente da Mussolini che poi lo volle sottosegretario al ministero dell’Interno. Da parte antifascista, la politica dei «ponti» fu perseguita da due gruppi di personaggi politici: i socialisti come Bonfantini, esponente di primo piano, o come la Bellora e Sollazzo, personaggi minori, ai quali vanno aggiunti Vigorelli e Andreoni. Il secondo gruppo formato da Germinale Concordia e da Pulvio Zocchi raccoglieva gli estremisti e i rivoluzionari più o meno velleitari che ritenevano insufficiente la strategia politica del PCI, troppo dedito alla guerra civile e al proprio tornaconto di potere. Erano, questi ultimi, gli idealisti che non avevano abbandonato del tutto l’idea di nazione. Erano anche quelli che, come i fratelli Bergamo, repubblicani e antifascisti, erano tornati dalla Francia quando Mussolini aveva creato la RSI, per unirsi ai vecchi ideali repubblicani, antiborghesi e sociali. Vi era un elemento comune fra i due gruppi: la paura e l’odio (a seconda dei casi) verso il PCI di Togliatti, e la consapevolezza che per contenere lo strapotere comunista durante la resistenza si dovesse ricorrere a qualunque alleanza. Sia i socialisti, sia i rivoluzionari ritenevano che la politica delle «mine sociali» potesse qualificare agli occhi dei lavoratori l’ultimo fascismo. Così non fu e, terminata la guerra, i personaggi di primo piano come Bonfantini furono ridotti al silenzio e minimizzarono la propria attività di collaborazione con i fascisti di Salò, mentre i più marginali scomparvero dalla scena politica. Che comunque fosse essenzialmente anticomunista l’obiettivo di entrambi i gruppi è confermato anche da talune posizioni assunte dopo la guerra da alcuni degli antifascisti dediti ai «ponti». In particolare, emerge dalle memorie inedite di Giorgio Pini come Vigorelli e Andreoni, nel dicembre 1946, prendessero contatti con Michelini, futuro segretario del MSI e in quel momento uno dei più attivi a costruire una rete politica degli ex fascisti, e con Valerio Pignatelli, pittoresco personaggio che aveva creato la rete clandestina fascista al sud nel 1943-44 e che aveva partecipato alla costituzione del nuovo partito proprio in quel dicembre del 1946. Tali contatti avevano lo scopo di proporre ai neofascisti un’alleanza tra socialisti ed ex fascisti di sinistra al fine di creare un fronte anticomunista.5 In mezzo a queste due correnti, Carlo Silvestri, mussoliniano ma antifascista, con un percorso personale assolutamente diverso da tutti gli altri protagonisti dei «ponti», e per certi versi anomalo. La sua funzione fu quella della «Croce Rossa», e cioè del tentativo di salvataggio degli antifascisti dalla galera e dal plotone prima del 25 aprile, e dei fascisti dopo quella data. Un tentativo che si inserisce nella componente socialista umanitaria che gli era propria, fin dall’epoca del delitto Matteotti. Anche Silvestri puntava a un incontro di fascisti moderati con antifascisti non comunisti in una prospettiva che potesse rendere il dopoguerra non solo governabile senza violenze, ma soprattutto in grado di recuperare il «buono» del fascismo, in un’ottica di libertà e di democrazia. Il progetto di Silvestri era sicuramente utopico, ed era legato alla possibilità che il passaggio dei poteri avvenisse sotto il controllo alleato e non sotto l’incalzare dell’azione partigiana.6 Il problema dei contatti tra fascisti moderati e antifascisti rivoluzionari ma non comunisti, realizzatosi sul finire della guerra civile, porta anche a un altro problema, sostanzialmente interno all’interpretazione del fascismo. Come si è già ricordato, quella dei «ponti» fu anche una delle manifestazioni nelle quali si venne ad articolare il problema del difficile rapporto fra moderati e intransigenti. Tuttavia, la questione non può essere soltanto risolta fra chi appare più o meno moderato e chi, invece, mostra un atteggiamento più muscolare e intransigente. Tale contrasto evidentemente esiste, ma c’è dell’altro. La difficile compatibilità tra intransigenti e moderati nella RSI – sicuramente più difficile rispetto al periodo del ventennio – riporta in buona misura alla definizione che del fascismo davano i suoi stessi rappresentanti. In altri termini, il problema dei «ponti», per quanto marginale rispetto ad altre tematiche, rappresenta una possibile cartina di tornasole per verificare quale autorappresentazione del fascismo davano i suoi protagonisti. E tale rappresentazione è molto utile per comprendere l’evoluzione della stessa categoria di fascismo dopo la fine della guerra. I modi di porsi dei fascisti di Salò nei confronti del fascismo possono essere ricondotti a tre tipologie; anche qui, non si tratta tanto di categorie interpretative, quanto di stati d’animo che si traducono in atti, in comportamenti e soprattutto in scelte. La prima posizione è quella di coloro che credevano che il fascismo fosse, più che un’ideologia, una condizione dello spirito che dovesse continuare immutata anche in RSI. Costoro vedevano nel fascismo un’ideologia, o una mistica, comunque una visione del mondo destinata a sopravvivere alla fine dello stesso fascismo. Non si trattava tanto della presenza fisica di Mussolini (anche perché nessuno aveva mai ipotizzato un altro duce), quanto la possibilità, anzi la certezza, che soltanto attraverso un sacrificio mistico l’idea fascista sarebbe sopravvissuta. La sua caduta non era interpretata come un semplice cambio di governo, ma come la fine di un mondo. Pertanto i giovani intransigenti dei GUF, i mistici fascisti, i vecchi squadristi che aderirono a Salò ritennero che il fascismo andasse difeso fino in fondo nella sua purezza e nella sua identità soltanto con la «bella morte», perché quello sarebbe stato l’unico modo per farlo sopravvivere al di là e contro la storia. I Pavolini, i Mezzasoma, i Farinacci ben poco si preoccupavano delle «mine sociali» o dei «ponti» da lanciare verso gli avversari per pensare a qualcosa di meno sanguinario e violento per il dopo. Anzi, cercarono di contrastare fino in fondo ogni tipo di contatto o di accordo, considerandolo sostanzialmente un tradimento. Costoro, approssimandosi la fine, decisero di togliere dal fascismo ogni dimensione politica, per assumere del fenomeno una dimensione religioso-spiritualistica. Di qui la scelta di seguire una strada testimoniale visto che il «dopo» sarebbe stato parte di un’altra dimensione. La seconda categoria è rappresentata da coloro i quali, invece, pensavano che realisticamente il fascismo fosse giunto alla fine: per costoro il fascismo non era un’ideologia vincolante ma qualcosa che si era sempre mosso (con Mussolini in testa) con estremo pragmatismo, sfruttando le situazioni, «giocando di rimessa» e consentendo che la «pelle fascista» si adattasse alle varie situazioni istituzionali e costituzionali. Di questo gruppo facevano parte i giornalisti di cui sopra si è accennato, da Pettinato a Pezzato, da Cione a Giobbe, da Gray a Pini, da Giovannini a Silvestri, i quali sperarono, fino alla fine, che il fascismo potesse evolversi in senso pluralista. E ciò non tanto per la necessità di risultare spendibili verso gli avversari con i quali stabilire degli accordi; quanto per prefigurare un «correttivo» rispetto al Ventennio, necessariamente dittatoriale, e misurarsi con le nuove regole della democrazia. Non è estranea a questo percorso, non in tutti ma sicuramente in molti, la prospettiva di un nuovo scenario di scontro tra comunismo e anticomunismo, all’interno del quale anche gli ex fascisti non «intransigenti» avrebbero potuto ricostruire spazi di agibilità politica, come di fatto avvenne. Pertanto, tale gruppo – al quale, com’è noto appartengono anche i fautori dei «ponti» – ipotizzando un accordo all’ultimo momento con alcuni degli avversari, dando loro come malleveria la costituzione di un movimento di opposizione come il Raggruppamento di Cione, era convinto che tale accordo non fosse tanto l’ultimo atto del fascismo, quanto il primo di una nuova fase che avrebbe segnato profondamente l’evoluzione del fascismo stesso e il superamento della guerra civile. La terza categoria è rappresentata dai più giovani, da quelli che non avevano responsabilità nella RSI e che assistettero, combattendo, alla disfatta. Per molti di loro, l’autorappresentazione del fascismo consisteva soprattutto nel convincimento che il fascismo, come categoria concettuale, fosse un’ideologia, ma che durante il ventennio il pragmatismo, i compromessi, i condizionamenti, la cattiva gestione della rivoluzione avessero depotenziato il valore culturale del fascismo. Di qui la necessità, una volta finita la guerra, di assicurare al fascismo un solido ancoraggio culturale e filosofico, che fino a quel momento era mancato. In questo senso le critiche a Gentile e ad altri esponenti della cultura fascista, di volta in volta troppo liberale, troppo moderata, troppo nazionalista. E di qui soprattutto il recupero di un fascismo «altro», legato all’esperienza tedesca o degli altri fascismi dell’Europa orientale. È questa la linea che si riconobbe soprattutto in Evola e nella mitizzazione del nazismo, con tutto il bagaglio di teorie aristocratiche, esoteriche, antisemite. Naturalmente per questo gruppo, che si delineò, soprattutto dopo la fine della guerra, nella corrente dei «figli del Sole» del Msi e, successivamente, in «Ordine Nuovo», ogni ipotesi di collaborazione con gli avversari costituiva un vulnus all’identità del movimento; allo stesso modo, da parte di costoro, che rifiutavano un certo nostalgismo nazionalista e patriottardo per sostituirvi un organico sistema di pensiero tradizionalista e pagano, ogni riferimento alla «politica di ponti» suonava offesa al sacrificio di quanti si erano battuti contro le potenze plutocratiche e contro le democrazie occidentali. In mezzo a queste tre categorie, vi era Mussolini: pragmatico, ancora affascinante, suadente, convinceva e si faceva convincere da ogni interlocutore. Egli non abbandonò mai, a differenza di altri, la categoria del politico, pronto a imbastire prospettive anche contraddittorie pur di poter conservare in mano il bandolo politico della matassa. Capire dove volesse arrivare Mussolini e soprattutto se fosse sincero negli apprezzamenti circa la politica dei «ponti», non è questione di facile soluzione. Certo, lo si comprende meglio se ci si affida alla tesi espressa da Vincenzo Costa, l’ultimo federale fascista di Milano, il quale, nei colloqui con il Duce trasse la chiara sensazione che Mussolini «dovette» realizzare lo Stato fascista repubblicano, per evitare peggiori reazioni hitleriane.7 Si tratta della nota, e già qui richiamata, tesi della RSI come «repubblica necessaria», secondo la famosa espressione che fa da titolo del volume memorialistico del ministro della Giustizia Pisenti. 8 Una tesi che trova conferma anche nelle memorie inedite di Giorgio Pini e che permette di comprendere il percorso politico del Duce a Salò. Il documento del prefetto Gioacchino Nicoletti, che Fabei riporta in Appendice, esordisce con una data significativa. Secondo il prefetto, infatti, Mussolini lo avrebbe incaricato di prendere contatti con il CLNAI nell’agosto 1944. La data è significativa e corrisponde alla ricostruzione che Renzo De Felice ha fatto nell’ultimo e purtroppo incompleto volume sulla biografia del capo del fascismo. Ci sono due fasi nell’azione del Duce durante la RSI. La prima arriva fino alla primavera-estate del ’44, e consiste nei suoi vani tentativi di realizzare – come si è già ricordato – quattro obiettivi: la creazione di un esercito di leva, operativo e in grado di andare al fronte a combattere; la convocazione di una Costituente e della relativa Costituzione (ricordiamo, a tale proposito che, oltre a quelli preparati da Biggini, Spampanato e Rolandi Ricci, vi era anche un progetto che nasceva direttamente da Mussolini, affidato istituzionalmente ad Araldo di Crollalanza, l’ex ministro dei Lavori Pubblici, e nella RSI commissario della gestione straordinaria della Camera dei Fasci e delle Corporazioni e del Senato del Regno; da questo Commissariato dipendeva un Ufficio studi incaricato di realizzare un lavoro comparativo a livello internazionale, per trovare la carta costituzionale più adatta da emanare a Salò);9 l’attuazione della socializzazione delle imprese; infine, la sostituzione di Pavolini dalla carica di segretario del PFR e la sua sostituzione con Fulvio Balisti, molto più vicino come idee e progetti alla mentalità di Mussolini.10 Nessuno di questi propositi andò a buon fine. In particolare, il Duce si rese conto che il peso e il ruolo di Pavolini, soprattutto presso i tedeschi, era tale che neppure lui sarebbe riuscito a scardinarlo. È Pini, nelle sue memorie già più volte citate, a chiarire di voler perseguire un obiettivo simile, che era quello di «liquidare» Buffarini Guidi dal ministero dell’Interno. Ci riuscì, tardi, nonostante la fortissima opposizione tedesca, e soprattutto riuscì a fare nominare al suo posto Paolo Zerbino, un altro moderato e aperto ai «ponti»: lo stesso Pini diventò sottosegretario nel medesimo dicastero.11 Tuttavia, il fallimento dei quattro obiettivi che si sono detti, obbligò in qualche modo Mussolini a modificare la propria strategia: posto che l’assetto politico della Repubblica risultava immodificabile (anche per il peso che il PFR aveva nel frattempo acquisito: basti pensare alla creazione delle Brigate nere, operazione voluta fortemente da Pavolini che fu in grado di superare le profonde perplessità del Duce), Mussolini decise di «aprire» canali operativi più decisi e credibili di quanto lo fossero stati i tentativi di operare nel campo della sinistra rivoluzionaria esperiti da Nicola Bombacci nella prima fase della RSI.12 Nacque così la politica dei «ponti», della quale Mussolini coglieva chiaramente la debolezza e, per certi versi, la velleità, ma che poteva costituire una via d’uscita ll’impasse – fisico e politico – nel quale il Duce si sentiva confinato. Vista in questa ottica, tutta la vicenda dei «ponti», descritta così bene e dettagliatamente da Stefano Fabei, acquista uno spessore diverso e diventa uno degli strumenti politici che Mussolini pose in atto per dare un’impronta personale a una situazione che, non soltanto dal punto di vista militare, risultava bloccata. La difficoltà di raccontare una simile storia non è soltanto rappresentata dall’incertezza documentaria, ma soprattutto dal fatto che i vari protagonisti, conclusasi la RSI nel modo che sappiamo, e fallita la politica dei «ponti», preferirono non parlare della questione. Il caso di Bonfantini è messo bene in evidenza dall’Autore, così come gli oscuri dettagli relativi alla liberazione di alcuni personaggi eccellenti dell’antifascismo, da Parri al figlio di Matteotti. Se da parte antifascista si preferì tacere degli inconfessabili contatti con i «repubblichini», da parte fascista furono pochi i protagonisti che scrissero apertamente di queste cose. Anche per loro, nel MSI almirantiano e romualdiano, scattava facilmente l’accusa di tradimento. È abbastanza indicativo il tono preoccupato di una lettera di Ezio Maria Gray a Renzo Montagna del 24 dicembre 1948, nella quale Gray (tutt’altro che un estremista, come si è già ricordato) chiedeva spiegazioni all’amico di certe voci che lo davano coinvolto nelle trattative tedesche condotte in Svizzera a insaputa di Mussolini.13 Sempre Montagna, in una lettera a Pisenti del 1949, raccontava come era riuscito a salvarsi grazie all’azione di Silvestri e grazie ai «ponti» e si stupiva delle polemiche sorte in ambito neofascista.14 C’è un’altra storia, affrontata solo in parte nel libro progetto di Fabei, meno importante ai fini dei «ponti», ed è quella della «coda» politica e giornalistica che questa vicenda ha prodotto. È una storia di memoriali, di articoli sui giornali («Meridiano d’Italia» di Servello, «Asso di Bastoni» di Caporilli, «Rivolta ideale» di Tonelli, tra tutti), di polemiche, di giurì d’onore su presunti tradimenti e su ipotetici doppi giochi che si svolse fra il 1947 e la fine degli anni Cinquanta. Ne è una buona fonte il carteggio di Renzo Montagna con gli stessi protagonisti, Silvestri in primo luogo, ma anche Cione, Tonelli, Servello e Gray. Non è una storia che aggiunge molto alla ricostruzione fatta da Fabei, ma può essere importante per un altro aspetto, assai diverso: l’eredità politica della questione dei «ponti». Emerge da questa documentazione la costante preoccupazione di tutti i protagonisti di dimostrare che tutto era stato fatto secondo la volontà di Mussolini. Ciò può risultare ovvio, ma fino a un certo punto. Se costoro avessero partecipato alla politica dei «ponti» per prendere le distanze dal fascismo e «riciclarsi» nel dopoguerra, non avrebbero usato l’argomento della obbedienza a Mussolini. Il fatto che l’abbiano usato non dimostra soltanto la buona fede della maggioranza di costoro (forse l’unico sul quale, da parte di tutti, pesano sospetti oscuri, è proprio Nunzio Luna), ma anche il forte ancoraggio identitario e nostalgico di questi personaggi che mai avrebbero fatto qualcosa senza il preventivo avallo del Duce. Questo elemento, apparentemente insignificante e quasi scontato, pone in una luce particolare lo stesso rapporto tra Mussolini e il dopoguerra nell’ottica dei «pontieri». Secondo costoro, la politica dei «ponti» non è soltanto un modo per chiudere la guerra civile senza troppi danni, ma soprattutto un progetto per il dopo. Può esistere un fascismo che, pur richiamandosi ai principi mussoliniani, rifiuta il totalitarismo, la dittatura e mostra di accettare se non i principi democratici, almeno il «metodo» democratico? Si tratta di una domanda non di scarso interesse, che non attiene nella maniera più assoluta all’economia del presente lavoro, ma che da questo lavoro parte, come partono dai migliori lavori spunti e suggestioni che portano altrove. E, a vederla in prospettiva, proprio la politica dei «ponti» finisce col fare da trait-d’union tra il fascismo e una certa parte del neofascismo. Non è infatti tanto la RSI nel suo complesso a fare da elemento di congiunzione fra il ventennio e il MSI, quanto l’azione svolta da coloro che pensarono, nei drammatici mesi della guerra civile, alla trasformazione di un fascismo dittatoriale in un neofascismo in democrazia, che in alcuni suoi esponenti rifiutava la dittatura e il totalitarismo riconoscendo il pluralismo politico. Ovviamente non tutto il MSI era sulla linea prospettica dei «pontieri», lacerato da una continua tensione fra richiamo al nostalgismo e tendenza a fare politica. Ma una parte di esso, sia politicamente, sia culturalmente, riteneva che la conclusione del ventennio fosse anche la conclusione di un percorso nel quale si era tentato invano di individuare forme diverse di rappresentanza politica che prescindessero dalla democrazia e dal rispetto e dalla tutela del dissenso politico. Una lezione che una parte del MSI riuscì a cogliere e che, con alterna fortuna e pur nella marginalità della sua collocazione politica, riuscì a portare avanti, per alcuni anni, nell’Italia democratica. Ma questa è un’ulteriore questione che attende ancora di essere raccontata.

GIUSEPPE PARLATO

GIUSEPPE PARLATO, nato a Milano nel 1952, è professore ordinario di Storia contemporanea presso la Libera Università «S. Pio V» di Roma e presidente della Fondazione Ugo Spirito. Fra le sue ultime pubblicazioni: La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato (Il Mulino, 2000, nuova edizione 2008); Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia (1943-1948) (Il Mulino, 2006); Mezzo secolo di Fiume. Economia e società a Fiume nella prima metà del Novecento (Cantagalli, 2009).

1 Archivio Renzo Montagna, Carteggio con Giovanni Tonelli. La lettera è del 20 giugno 1952.

2 Per una ricostruzione di alcune di tali «continuità» mi permetto di rimandare a G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 21 ss.

3 ACS, G. Pini, Ragazzo del ’99, cap. VI, Bufera 1942-1945, pp. 184.

4 C. Pettinato, Tutto da rifare, Ceschina, Milano 1966, pp. 307 ss. Si veda anche Id., Se ci sei, batti un colpo. 100 articoli per “La Stampa” per la storia della Rsi, Scarabeo, Bologna 2008, pp. 33 ss.

5 ACS, G. Pini, Ragazzo del ’99, cap. VII, Gianni, p. 139-140.

6 Su Silvestri e sulla sua azione durante e dopo la Rsi si veda G. Gabrielli, Carlo Silvestri socialista, antifascista, mussoliniano, Franco Angeli, Milano 1992.

7 V. Costa, L’ultimo federale. Memorie della guerra civile, Il Mulino, Bologna 1997, p. 125.

8 P. Pisenti, RSI. Una repubblica necessaria, Volpe, Roma 1977.

9 A. di Crollalanza, Discorsi parlamentari, Senato della Repubblica, Roma 1995, pp. 24-26.

10 R. De Felice, Mussolini l’alleato, II, La guerra civile 1943-1945, Einaudi, Torino 1997, pp. 544 ss.

11 ACS, G. Pini, Ragazzo del ’99, cap. VI, Bufera 1942-1945, p. 172.

12 R. De Felice, op. cit., pp. 539 ss.

13 «Sono venuti da me amici di Milano e abbiamo parlato delle attuali polemiche sui contatti tra partigiani e fascisti “bigi”. Essi mi hanno detto che a Milano da tempo si ritiene che tu non fosti estraneo alle trattative condotte da Wolff in Svizzera all’insaputa di Mussolini e naturalmente del Pfr. Che cosa debbo privatamente rispondere? Per ora ho eccepito la dirittura energica delle tue dichiarazioni ultime (destinate a “Meridiano”), ma l’affare Wolff è altra cosa». Archivio Renzo Montagna, Carteggio con Ezio Maria Gray.

14 «Carissimo Piero, il pretendere che sia disonorevole l’aver fatto uso di documenti falsi dopo il 25 aprile mi sembra abbastanza stupido. Ho l’impressione che il Luna se ne sia servito anche prima e allora la cosa cambia aspetto. Sembra che egli, in quelle giornate di fine aprile, girasse liberamente in macchina nelle vie di Milano. Noi abbiamo assolto i nostri compiti, tu di Ministro ed io di Capo della Polizia, sino alla sera del 25 aprile, senza mascherarci… Un documento falso ci venne dato nella seconda quindicina di maggio dai nostri amici, mentre ci trovavamo nel terzo nascondiglio. Non avremmo dovuto nasconderci né mascherarci? Ma chi è quell’imbecille che sostiene simili assurdità? Circa le carte di identità di mascheramento, posso dirti che anche i miei uffici ne rilasciavano. L’Ufficio Statistica del Ministero degli Interni mi aveva fornito i timbri di tutti i comuni che erano rimasti senza anagrafe e con questi e con le carte annonarie che mi erano state fornite da diverse Prefetture rilasciavo documenti falsi a chi me ne faceva richiesta. Questo avvenne negli ultimi giorni della Repubblica, ma mi risulta che alcune Prefetture facevano ciò da diversi mesi. Se quelle carte avessero salvata anche solo una persona ci sarebbe da benedirle! A meno che si debba gioire solo per i massacrati… Ma vale la pena di mettere al sole queste miserie, mentre perdura il clima della guerra civile ed il coltello dalla parte del manico lo hanno gli altri?». Archivio Renzo Montagna, Carteggio con Piero Pisenti, Lettera del 9 febbraio 1949.

INTRODUZIONE

Negli ultimi mesi della Repubblica sociale italiana prese corpo un progetto politico, chiamato «ponte», mirante non solo a rendere meno cruenta la guerra civile, che si profilava sempre più sanguinosa, ma anche a creare i presupposti per una trasmissione indolore del potere, da parte di Mussolini e degli ambienti più moderati della RSI, alle forze, come i socialisti, ritenute dal Duce meno lontane, anche sotto il profilo ideologico, da quel fascismo rivoluzionario e delle origini che aveva in qualche modo tentato una sua riproposizione tra il 1943 e il 1945, e non contrarie in modo pregiudiziale a un passaggio dei poteri senza spargimento di sangue.

Questo piano – cui si sarebbero con tutte le forze opposti, oltre ai fascisti intransigenti, esponenti di spicco del Comitato di liberazione nazionale come Lelio Basso e Sandro Pertini – doveva trovare concreta attuazione sulla base degli accordi che, per volontà del Duce, intercorsero tra il generale Nicchiarelli, vicecomandante della Guardia nazionale repubblicana, e Corrado Bonfantini, il comandante delle formazioni militari del Partito socialista italiano, per costituire formazioni miste, i «battaglioni del popolo» che, agli ordini di ufficiali della GNR, sarebbero entrati in azione nel momento in cui i tedeschi si fossero ritirati.

Oltre a questi motivi ufficiali va da sé che potessero esisterne altri per pervenire a un accordo: l’adesione, di elementi di entrambe le parti, a un programma di moderazione e pacificazione al fine di scongiurare, per ragioni ideali o di semplice opportunità, la lotta fratricida; il tentativo da parte fascista di mettere in atto sia una manovra tattica per creare spaccature nello schieramento opposto, tutt’altro che compatto, sia una manovra alibistica cui alcuni uomini della RSI credevano di poter ricorrere quando fosse sopraggiunto il momento della resa dei conti.

Non fu tanto, o solo, la paura della legge sull’epurazione che era entrata in vigore nel luglio del 1944 a convincere alcuni esponenti del fascismo repubblicano a cercare canali di trattativa con il Corpo di liberazione nazionale per l’Alta Italia. Determinante fu la spesso minacciosamente preannunciata creazione dei tribunali del popolo, cui avevano dato in modo ufficiale il proprio avallo i CLN regionali, e che solo più tardi, secondo i programmi insurrezionali, avrebbero dovuto cedere il passo alle Corti d’assise straordinarie. Era ormai chiaro che si stava avvicinando il momento della vendetta, anche se non si immaginavano quelle che sarebbero state le effettive dimensioni della strage. Quasi sempre e ovunque, nel corso della storia, i tribunali popolari hanno fatto ricorso a bagni di sangue e vendette indiscriminate definendole poi, per legittimare il potere dei vincitori, atti di giustizia. «Lo sforzo degli uomini di buona volontà» – era scritto in un promemoria del gennaio-febbraio 1945 contro la banda Carità recapitato da Carlo Alberto Biggini al Duce – «dovrebbe tendere a creare un fronte unico contro criminali e pazzeschi propositi di uccidere uomini che hanno operato nell’orbita del loro dovere, seguendo le regole della fedeltà, dell’onestà e della probità».1

Le paure nutrite dai fascisti non erano infondate. Il 25 novembre 1943, all’inizio della lotta di liberazione era stato pubblicato l’«Ordine del giorno n. 1» della Resistenza in cui si affermava che «le formazioni partigiane debbono orientare la loro attività soprattutto al conseguimento di questi obiettivi: 1) attaccare in tutti i modi e annientare ufficiali, soldati, materiali delle forze armate che hanno invaso il nostro Paese; 2) attaccare in tutti i modi ed annientare le persone, le sedi, le proprietà dei traditori fascisti o di quanti collaborano con l’occupante tedesco; 3) attaccare in tutti i modi e distruggere la produzione di guerra destinata ai tedeschi, le vie, i mezzi di comunicazione, tutto quanto può servire ai piani di guerra e di rapina dell’occupante nazista».2

I timori dei fascisti trovavano un ulteriore riscontro nella proposta formulata alla fine del 1944 dalle brigate «Garibaldi», legate al Partito comunista italiano, al CLNAI di dichiarare traditori e nemici della patria non solo gli iscritti al Partito fascista repubblicano, ma anche i non iscritti appartenenti alle forze volontarie. In quanto «collaborazionisti» dovevano essere eliminati per mano partigiana.3 Il CLNAI, sulla base del principio che chi si arrendeva doveva aver salva la vita, non accettò: solo i fascisti catturati con le armi in pugno sarebbero stati passati per le armi. Tuttavia il CLN piemontese, che si caratterizzò sempre per la sua autonomia d’azione, all’inizio del 1945, emanando le proprie «direttive operative per l’insurrezione» ordinò che tutti i ministri, sottosegretari, prefetti, federali, giornalisti fascisti e militi delle varie unità combattenti della RSI, indossanti o meno la camicia nera, fossero fucilati dopo l’accertamento della loro identità. Va a proposito ricordato non soltanto che tali disposizioni erano contenute nelle circolari numero 200 e 250, firmate da generali e colonnelli dell’esercito, ma che era escluso per i condannati il diritto di inoltrare domanda di grazia.

Il CLN lombardo il 24 marzo 1945 ordinò l’arresto, la confisca dei beni e la punizione di «tutti coloro che, con la loro attività, abbiano comunque contribuito ad agevolare e mantenere il regime di occupazione delle forze armate tedesche e dei loro alleati», precisando però in modo dettagliato chi doveva essere punito, ovvero «chi ha collaborato alla stampa», «chi ha fornito merci al governo o alle forze armate della Germania», «chi si è arruolato nei servizi del lavoro», «chi ha dato informazioni su depositi e impianti».

Ci fu una specie di legittimazione a scatenare il furore degli odi e delle vendette, la caccia all’uomo: stupri e rapine si accompagnarono alle stragi che fecero ammucchiare i cadaveri sulle strade del Nord. Non ci fu più nulla di sacro: tutto fu confuso e annullato in una sola ondata di sangue. In totale migliaia e migliaia di morti, spesso uccisi per equivoco o senza fondata ragione. La strage spesso non fu motivata da una qualsiasi idea politica, ma dallo sfrenarsi degli istinti peggiori di quanti volevano sfogare rancori personali, talvolta appagare una libidine di sangue, in altri casi coprire con l’assassinio il furto e la rapina.

In guerra uccidere il nemico è una dura ma comprensibile necessità, si può persino giustificare la rappresaglia contro l’avversario che ancora combatte. Ciò che invece non si comprende è la ferocia contro chi è caduto e non può più nuocere. Si è parlato di giustizia, di giustizia partigiana, ma la giustizia vuole la punizione dei criminali e non già l’eliminazione degli avversari. La giustizia considera mostruosa contaminazione il travestimento dell’odio politico con improvvisate e capziose formule giuridiche.

Nelle stragi un ruolo primario, da protagonisti, lo ebbero i comunisti che si rivelarono spesso implacabili: la «direttiva insurrezionale n. 16» diramata dal PCI il 10 aprile 1945 era logica, dato lo stato di guerra, pur nella sua ferocia: intimare ai gerarchi di arrendersi prima dell’insurrezione e accompagnare l’ordine con degli esempi: «Mentre si darà applicazione alle direttive emanate per la diffusione della nostra intimazione, si dovrà colpire duramente quanti non s’arrendono, per dar prova che la nostra intimazione non è un’inutile bravata, ma che abbiamo la forza ed i mezzi per darle integrale applicazione. Il lancio di manifestini diretti ai nazifascisti e ai loro amici e collaboratori, l’invio di lettere personali ai grossi papaveri dell’apparato statale e produttivo, devono essere accompagnati da quanti più esempi è possibile di gerarchi, di nazifascisti, di alti funzionati, di dirigenti collaborazionisti abbattuti dal piombo giustiziere dei patrioti».4

Fu disposto di non accettare nessuna possibilità di conciliazione. Se i partiti del CLN auspicavano, in genere, l’insurrezione per assicurarsi il merito di aver «liberata» l’Italia del nord nell’illusione che ciò potesse avere un peso al tavolo della pace, i comunisti volevano I’insurrezione per l’insurrezione, non solo per tutte le possibilità implicite in tale stato d’anarchia, dall’eventualità della conquista del potere alla cattura di un importante bottino, ma soprattutto perché consideravano l’insurrezione un atto capitale nell’educazione rivoluzionaria del popolo italiano. Pertanto la «direttiva» proclamava: «Per tutti, deve essere ben chiara una cosa: per nessuna ragione il nostro Partito, e i compagni che lo rappresentano in qualsiasi organismo militare o di masse, devono accettare proposte, consigli, piani tendenti a limitare, a evitare, a impedire l’insurrezione nazionale di tutto il popolo».5

Come criterio generale della condotta da tenere verso i fascisti durante tale insurrezione «il Comando Piazza di Torino aveva disposto la fucilazione dei gerarchi e degli appartenenti alle formazioni armate nonché dei direttori dei giornali ed altro “personale”, ma il Comando Generale dei Volontari della Libertà trasmettendo per conoscenza a tutti i comandi dipendenti le disposizioni di Torino precisò la sua direttiva: “Chi si arrende deve aver salva la vita, se non ha da rispondere di crimini particolari. Deve essere fucilato ogni fascista catturato con le armi”».6 Spesso non ci si limitò a eseguire l’ordine del Comando generale del Corpo volontari della libertà (CVL), ma si oltrepassò abbondantemente anche quanto era stato stabilito dallo stesso Comando piazza torinese, che forse fu il più duro di tutti, in quanto si ammazzarono all’impazzata e senza pensarci su fascisti e presunti tali.

Tornando al «ponte», va detto che ad esso non furono estranee connivenze e strumentalizzazioni come il rilascio di alcuni dirigenti democristiani, operato a fini propagandistici; il movimento si attirò così l’ostilità violenta dell’ala estremista del fascismo ormai troppo compromessa. Nella vicenda, alla buona fede e all’alibismo di Edmondo Cione e al protagonismo di qualche figura minore si unì il tentativo poco convinto, limitato e tardivo, del Duce – al di là dell’evidente natura tattica dell’autorizzazione concessa al Raggruppamento nazionale repubblicano socialista (RNRS) – di procurarsi una credibilità verso l’esterno.

Riteniamo che al progetto «pontista» – nonostante fosse intrinsecamente minato da contraddizioni insuperabili e da difficoltà esterne, e al di là della sua scarsa incidenza agli effetti pratici – non possa essere negata né una sua dignità politica né un’intima sincerità di intenti innovatori, al contrario di quanto vollero riconoscere, a guerra finita alcuni esponenti dell’antifascismo i quali come Parri sostennero, minimizzando, che si era trattato di un fenomeno di scarsa rilevanza anche se era riuscito a sollevare qualche allarme per il suo carattere di «perturbamento e di confusione».7 Ci fu una fitta serie di contatti fra personaggi tra loro molto lontani per differente estrazione e posizione politica, provenienza e sensibilità culturale, ma tutti mossi, per quanto in maniera diversa e con diverse finalità, dall’idea, molto generosa se non utopistica, del «ponte». Questo, e l’attività svolta da Cione, costituirono un fenomeno rilevante in quanto catalizzatore e rivelatore di ansie e aspirazioni velleitarie dell’ultimo fascismo.

1 Promemoria conservato nell’Archivio Toffanin, cit. da Garibaldi L., Mussolini e il professore. Vita e diari di Carlo Alberto Biggini, Mursia, Milano 1983, p. 176.

2 Dal discorso di Togliatti a Reggio Emilia, in «l’Unità», 24 maggio 1949.

3 Cfr. Tamaro A., Due anni di storia: 1943-1945, Tosi, Roma 1949, vol. III, p. 432. Dello stesso tenore anche: BASTA? Una franca parola ai traditori fascisti, in «Il Lavoratore», n. 9, 1° maggio 1944, dove si legge testualmente: «Tutti i cittadini hanno il diritto e il dovere di erigersi a giustizieri dei fascisti».

4 Longo L., Un popolo alla macchia, Mondadori, Milano 1947, p. 414.

5 Ibidem.

6 Ibidem, pp. 426, 427.

7 Parri F., Scritti 1915-1975, Feltrinelli, Milano 1976, p. 130.

INDICE

Prefazione

Introduzione

Capitolo Primo

Politica di conciliazione nazionale e necessità del «ponte»

Capitolo Secondo

Biggini, il ministro moderato

Capitolo Terzo

Il compagno-camerata Silvestri e il sogno di un socialismo fascista

Capitolo Quarto

Edmondo Cione, un idealista «privo di seguito»

Capitolo Quinto

L’incontro tra il filosofo e il dittatore

Capitolo Sesto

Indipendenza nazionale, libertà e giustizia sociale

Capitolo Settimo

La nascita del Raggruppamento nazionale repubblicano socialista

Capitolo Ottavo

Pontisti «neri» e pontisti «rossi»

Capitolo Nono

Prove di distensione: gli incontri degli antifascisti col questore Bettini

Capitolo Decimo

I contatti di Nicoletti con Bonfantini e Concordia

Capitolo Undicesimo

Gli accordi tra Bonfantini e Nicchiarelli. Le due verità

Capitolo Dodicesimo

«Il giramondo»

Capitolo Tredicesimo

Il RNRS tra speranze per il futuro e difficoltà presenti

Capitolo Quattordicesimo

«L’Italia del popolo»

Capitolo Quindicesimo

L’opera di controllo della GNR

Capitolo Sedicesimo

L’opposizione dei fascisti intransigenti e degli antifascisti

Capitolo Diciassettesimo

L’unità del RNRS minata dal protagonismo dei suoi vertici

Capitolo Diciottesimo

L’ostilità tedesca al progetto pontista

Capitolo Diciannovesimo

Il riavvicinamento tra Silvestri e Mussolini, tra sogni e illusioni

Capitolo Ventesimo

La simpatia del Duce per la Lega dei consigli rivoluzionari

Capitolo Ventunesimo

L’estremo tentativo mussoliniano di consegnare la RSI ai socialisti

Capitolo Ventiduesimo

La fine di tutto

Capitolo Ventitreesimo

Le polemiche del dopoguerra

Appendice

Note

Ringraziamenti

Bibliografia

Indice dei nomi

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    2 Commenti

  • guest ha detto:

    Ma secondo voi, in Italia durante il ventennio c’erano davvero 40 milioni di pazzi ? le così dette “adunate oceaniche” forse erano frutto della politica del terrore di Mussolini, o la gente andava ad ascoltare finalmente un uomo che diceva parole che tutti volevano sentire ?

  • Elijah Mendoza ha detto:

    Piero Della Seta e Roberto Della Seta in un testo fondamentale (I suoli di Roma, Editori riuniti, 1988) hanno analizzato approfonditamente la politica fondiaria del fascismo, smentendo le interpretazioni correnti circa la continuità fra l’urbanistica fascista e quella dei governi democristiani, arrivando a concludere che “lo strapotere della grande rendita fondiaria è una novità del dopoguerra, non del fascismo”.

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