IL GENERALE DELLE CAMICIE NERE


Il generale delle camice nere

Prefazione

La letteratura sulla RSI è ormai assai ampia, soprattutto nel campo della memorialistica; laddove invece vi è ancora molto da fare è in quello della ricostruzione storica e, di conseguenza, nell’interpretazione settoriale e globale della politica e delle istituzioni del fascismo repubblicano.
Nel corso del dopoguerra si è creata una situazione singolarmente parallela, a livello storiografico, tra Resistenza e Repubblica sociale. Da un lato, gli istituti della Resistenza hanno per molto tempo offerto una lettura liturgica della guerra partigiana, tentando di sottolineare la funzione pubblica di tale lettura, che era quella di mostrare come la Resistenza fosse il fondamento etico e politico del nuovo Stato repubblicano nato dopo la conclusione del Secondo conflitto mondiale. Il risultato è stato quello di avere pubblicato una messe straordinaria di memoriali più o meno interessanti ma di avere eluso, salvo lodevoli eccezioni, alcuni nodi essenziali della guerra civile (termine mai del tutto accolto dalla storiografia vicina al movimento partigiano), a cominciare dal ruolo del Partito comunista nelle brigate partigiane e dai rapporti con le altre anime dell’antifascismo. Per non parlare, poi, dei silenzi più o meno imbarazzati (anche qui, fatte salve poche eccezioni) sulle tante «rese dei conti» dell’immediato dopoguerra, che hanno consentito a Gianpaolo Pansa di colmare una grave lacuna d’informazione, sessanta e più anni dopo gli avvenimenti, di fronte a un’opinione pubblica sempre più desiderosa di avere notizie circa le dimensioni di un fenomeno che era stato messo sotto silenzio.
Ma il problema riguarda, come si è detto, anche la RSI. Le istituzioni che hanno, in questo dopoguerra, coltivato la memoria politica di Salò e delle sue forze armate, non hanno mai svolto un’azione rigorosa dal punto di vista storico. Si dirà che questo non era compito di tali istituzioni, nate, appunto, per conservare le memorie e non per storicizzarle. Ciò è vero (e anche la diversa disponibilità di risorse ha fatto la netta differenza tra queste istituzioni e gli istituti della Resistenza), ma è indubbio che soltanto recentemente (e non da parte di tutte queste istituzioni) si è deciso di aprire gli archivi senza pregiudizi lasciando agli storici libera circolazione di ricerca e di interpretazione.
Il vero problema che «blocca» il rapporto memoria-ricerca in entrambi i versanti della guerra civile è da ricercare piuttosto in una questione tuttora aperta. Una storicizzazione vera parte dal presupposto che il soggetto da storicizzare appartenga ormai al passato, mentre invece sia lo «spirito della Resistenza», sia il fascismo nelle sue varie versioni sembrano fenomeni non soggetti all’usura del tempo e pertanto vengono presentati come memoria storica utile (o pericolosa) per il presente, come rivendicazione di qualcosa che sarebbe dovuto essere e non è stato. In sostanza, ciò che ha bloccato per decenni la storicizzazione dei due fenomeni è stata la loro fruibilità politica, di volta in volta evocata, in vista di una «purezza ideale» sia del fascismo, sia della Resistenza, da rivendicare come qualcosa che è stato nel frattempo «tradito» dai compromessi, dalle alleanze, dalla troppa vicinanza con il potere, insomma dalla politica; dalla politica stessa, quindi, deve essere recuperato per essere riportato in termini di progettualità e di attualità.
E’ per questo motivo che non ci si può che rallegrare di fronte a un tentativo – certamente riuscito – di realizzare un racconto storico relativo a uno dei personaggi più controversi nell’ambito della memoria della RSI, il capo di stato maggiore della Guardia nazionale repubblicana Niccolo Nicchiarelli.
L’Autore, Stefano Fabei, è noto come valido studioso del periodo tra le due guerre mondiali e si è cimentato con successo soprattutto sul versante della politica internazionale, con una significativa attenzione al Medio Oriente. In questo libro, come negli altri, ha condotto la ricerca in termini assai rigorosi basandosi sulla documentazione conservata presso archivi pubblici e privati, in particolare attingendo le notizie direttamente dall’ampio archivio relativo al protagonista, conservato presso la famiglia.
Nicchiarelli è personaggio per certi versi singolare, che appare più legato all’ambiente militare piuttosto che a quello della politica. Diciamo appare, perché, in realtà, a scorrere anche superficialmente le date della sua vita si scopre che l’attività politica fu tutt’altro che secondaria: membro del direttorio della federazione del Partito nazionale fascista di Perugia dal 1921 al 1925 e di Trieste dal 1931 al 1934; ispettore del PNF per la Libia e segretario federale di Bengasi dal 1937 al 1940; ispettore del PNF e membro del direttorio nazionale del partito dal 1939 al 1940. A ciò si può aggiungere il periodo in cui fu sindaco del suo paese, Castiglion del Lago (1923-27) e il quadriennio in cui resse la segreteria federale degli enti autarchici di Perugia (1925-29).
Per quanto riguarda l’impegno nella vita militare, dobbiamo farlo incominciare da quando, falsificando la data di nascita e aumentandosi l’età di due anni, riuscì a partire volontario nella Prima guerra mondiale (e Fabei ricorda il gustoso episodio, che ben figura nei fasti della nostra burocrazia, del giovane Nicchiarelli che, chiamato alla leva nel 1917, viene dichiarato renitente sebbene già da due anni servisse la Patria in guerra). Dal 1915 al 1920 è dunque sotto le armi. Quindi nel 1923 entra nella Milizia dove svolge attività amministrative ma soprattutto militari e ne esce con la fine della guerra, nel ’45, da tenente generale capo di stato maggiore della GNR.
Un militare, quindi, sempre volontario, con due medaglie d’argento, una di bronzo al Valor Militare e varie altre decorazioni, che partecipa alla Grande Guerra come giovane ufficiale, collabora con Balbo in Libia tra la campagna d’Etiopia (alla quale non partecipa con suo grande rammarico) e il Secondo conflitto mondiale: lo scoppio delle ostilità lo trova in Libia, quindi è al comando della «Tagliamento» in Russia, infine la RSI.
Siamo stati abituati, nella lettura delle biografie dei fascisti più significativi, a infinite tipologie: ci sono i fascisti critici, quelli disobbedienti ma fedeli, i fascisti che hanno detto «no» a Mussolini, quelli che credevano di essere fascisti ma non lo erano, quelli che lo erano stati, ma fino a un certo punto, eccetera. In realtà, com’è fin troppo noto, le varie categorie che si possono individuare all’interno del fascismo corrispondono alla flessibilità culturale e ideologica dello stesso regime, nel quale convivevano, spesso con forti conflittualità, gerarchi come Bottai e Starace, Farinacci e Grandi, Federzoni e Rossoni. È normale, quindi, che si individuino da parte degli storici quelle sfumature e quelle peculiarità che hanno reso significativo il regime: proprio attraverso quelle peculiarità, quelle sfumature e anche quelle contraddittorietà il regime è riuscito a rappresentare per molto tempo il tessuto politico del Paese, intercettando un consenso che non era soltanto obbligato e neppure solo passivo. Tuttavia, il fascista che critica la politica del fascismo non necessariamente cessa di essere tale: in altri termini, una certa moda biografica, al poco lodevole scopo di ridimensionare le «colpe» del biografato, ne ha fatto un «quasi-antifascista»: si pensi, ad esempio, alla questione della fronda giovanile, che fu sicuramente critica, e anche dura, ma sempre nell’ambito dell’ottica fascista, mentre talvolta viene presentata come il primo significativo e serio atteggiamento antifascista tra le file del regime. Usando tale metro interpretativo, quasi nessuno fra i gerarchi poteva definirsi effettivamente fascista e, forse (ma non è detto), l’unico fascista in Italia finiva con l’essere Mussolini. Tale percorso porterebbe alla visione di un fascismo pressoché inesistente, privo di peculiarità proprie e di autonomia: un’operazione, questa, che potrebbe essere anche consolatoria e forse anche assolutoria nei confronti dei tanti protagonisti del regime, ma che non serve minimamente a comprendere le realtà del fascismo che era sì fatto di sfumature e di differenze, ma che comunque era esistito nella sua complessità.
Detto questo, non è agevole tentare un’interpretazione globale del personaggio Nicchiarelli. Militare, scrive giustamente Fabei; ma teniamo anche presente la sua formazione nazionalista, un po’ personale, un po’ familiare: laica, risorgimentale, patriottica. I due elementi – l’essere militare e l’avere avuto simpatie nazionaliste – in genere determina un filo conduttore che informa di sé i percorsi successivi; non è un caso che Nicchiarelli sia stato molto legato a Serafino Mazzolini: li univano la militanza nazionalista e l’adesione alla RSI intesa più come continuità dello Stato che come scelta ideologica.
La chiave interpretativa dell’amministrazione pubblica è messa in luce con molta chiarezza dall’Autore. A ben considerare, al di là dell’attività prettamente militare, Nicchiarelli ha svolto per molto tempo attività amministrativa: si è già ricordato il suo ruolo di sindaco a Castiglion del Lago; ma occorre aggiungere il rettorato supplente alla provincia di Perugia, nonché le attività svolte nell’ambito della Milizia: il comando della colonia di confino politico a Lipari, l’esperienza a Trieste come comandante della locale legione MVSN, il comando della legione libica e la presidenza del Tribunale speciale dello Stato a Bengasi, il lavoro di controllo svolto a Torino al comando della 1a legione CC.NN. e in Slovenia al comando del raggruppamento «XXI aprile» tra il 1942 e il 1943, e infine il ruolo di vertice nella GNR nella Repubblica sociale.
In questa veste, Nicchiarelli interpretava un fascismo che si faceva Stato, in una totale adesione a quello che Mussolini intendeva nel rapporto fra Stato e partito. Il suo fascismo non era né quello degli intransigenti, che puntavano a una sorta di «rivoluzione continua», in genere verbale, e neppure quello dei fiancheggiatori (tra i quali molti ex nazionalisti), pronti ad abbandonare il fascismo non appena le cose si fossero messe male; tanto meno si trova in sintonia con i vertici militari, con i quali ci sono problemi per tutta la Seconda guerra mondiale, da Sidi el Barrani a Salò, e che vengono da Nicchiarelli accusati di non svolgere con coerenza il proprio ruolo e di essere sostanzialmente tiepidi con il regime.
È lo Stato che recepisce le linee direttrici del fascismo facendole proprie, senza permettere che esse si risolvano contro o al di fuori dello Stato. In questo senso vanno letti alcuni passaggi essenziali della biografia di Nicchiarelli, che Fabei sottolinea con notevole evidenza: è favorevole alla svolta a destra di Mussolini nel 1921, ha una posizione autonoma e mediana nella polemica che coinvolge il fascismo umbro tra conservatori alla Misuri e sindacalisti alla Pighetti, assume una posizione istituzionale e moderata rispetto ai confinati politici, rileva gravi carenze nel ruolo dello Stato in Libia, giungendo ad accusare il PNF di non svolgere una seria azione di supporto alla progressiva assimilazione dei libici alla cittadinanza italiana. Il discorso diventa ancora più complesso negli anni della Seconda guerra mondiale. A Torino, l’analisi della situazione politica, sociale e culturale è seria e rigorosa: vengono messe in evidenza le inadempienze del partito circa il suo rapporto con la società civile, sia verso la borghesia e gli intellettuali, ma anche verso il mondo del lavoro, e viene sottolineato come il fascismo non svolge sempre quel ruolo di esempio, di moralità e di serietà che dovrebbe svolgere in un corretto rapporto con lo Stato.
Ma dove la sua analisi è ancora più cruda è in Slovenia. La lunga relazione di Nicchiarelli, inviata al sottosegretario agli Esteri della RSI, Mazzolini, nel novembre del 1943, ma relativa alla presenza italiana dal 1941 in poi, è particolarmente significativa e getta nuova luce sia sull’inefficacia della dura politica di assimilazione forzata dell’elemento slavo, sia sulle violenze, sui soprusi di cui si resero protagonisti gerarchi del partito e vertici militari, nell’ambito di un’evidente insensibilità politica e umana nei confronti delle popolazioni slovene. In particolare, proprio l’aver voluto estendere le strutture del Partito anche all’annessa Lubiana venne considerato da Nicchiarelli un grave errore politico: come si poteva pensare che una popolazione tradizionalmente antiitaliana potesse aderire al Partito fascista?
Anche il periodo della RSI si può leggere attraverso il filo conduttore dello Stato e della sua continuità. Scrive Fabei, realizzando una sintesi efficace e rispondendo alla domanda circa le motivazioni che indussero Nicchiarelli ad aderire alla Repubblica di Mussolini: «È probabile che sia stato indotto a giocare la carta di Salò non dalla sua fede politica ma dalle circostanze che lo videro protagonista nel settembre 1943 in Slovenia e, nel periodo successivo, in Italia. Uomo d’ordine, soldato leale, decise di continuare a combattere la guerra a fianco dell’alleato di cui diffidava; in tale scelta fu determinante il forte patriottismo e il senso dello Stato… che aveva sempre avuto».
Un giudizio pienamente condivisibile e che in qualche modo spiega anche il suo comportamento nelle drammatiche giornate della fine, contestato duramente da molti reduci della RSI. Il generale Nicchiarelli fu accusato di essersi eclissato nei giorni fatidici del 24 e del 25 aprile 1945, lasciando senza ordini la GNR. L’Autore, correttamente, riporta i principali giudizi espressi nel dopoguerra da alcuni esponenti di Salò, a cominciare da Graziani – il quale, per altro, aveva vecchia ruggine con Nicchiarelli, avendolo quest’ultimo accusato di fatali indecisioni durante la prima avanzata italiana in Africa settentrionale alla fine del 1940 – per proseguire con Spampanato, Costa ed altri. Come mette in evidenza Fabei, il problema di Nicchiarelli fu l’aver partecipato alle famose trattative che negli ultimi giorni della RSI alcuni esponenti di Salò avevano posto in essere con il movimento partigiano per un passaggio indolore dei poteri dai fascisti verso alcuni esponenti del socialismo che avevano accettato di dialogare con il governo repubblicano. Nicoletti, Biggini, Manunta, Gorrieri, il generale Luna, Bettini, Cione, Silvestri, Spampanato e Parini avevano tentato, su indicazione dello stesso Mussolini, di realizzare una politica di «ponte» verso i partigiani più disponibili, atteso che appariva a tutti evidente che la partita era da considerarsi conclusa. Nicchiarelli era tra questi. Sulla storia di questi «pontieri» lo stesso Fabei ha scritto un libro innovativo e documentato, I neri e i rossi. Tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti nella Repubblica di Mussolini, edito da Mursia nel 2011. Ne emerge un quadro vivace e variegato sulle tante ipotesi che accompagnarono il crepuscolo del fascismo repubblicano: da quelle più fantasiose a quelle più realistiche, tutte indistintamente travolte dalla violenza della «resa dei conti».
Naturalmente, da parte fascista, la logica della «bella morte» finì per far considerare quasi dei traditori coloro i quali tentarono soluzioni politiche per limitare danni che apparivano devastanti, e che poi così furono. Si pensi al caso di Pino Romualdi al quale il fatto di essersi salvato dopo il 25 aprile per aver condotto trattative con l’OSS e con i partigiani moderati non fu mai in sostanza perdonato.
Nicchiarelli partecipò ai «ponti» non tanto per poter operare politicamente sul «dopo», ma semplicemente per difendere quel che restava della struttura dello Stato, consentendo un futuro che potesse in qualche modo rappresentare una continuità con le realizzazioni, se non con i presupposti, del fascismo. Il fatto che dopo la guerra non abbia fatto politica attiva conferma la sua posizione disinteressata: forse, da parte neofascista, sarebbe tempo di riconsiderare la posizione di quanti preferirono pensare alla continuità dell’Italia piuttosto che ritenere esaurita la propria funzione con la fine del fascismo e non condannare coloro i quali non scelsero necessariamente la morte come conclusione eroica del proprio percorso politico.
La ricerca di Fabei, in conclusione, è meritevole di attenzione perché costituisce un importante punto di riferimento scientifico che va al di là della singola figura di Nicchiarelli: infatti lumeggia bene un ambiente assai significativo nella geografia del fascismo, quello dei fascisti che avevano colto il fondamentale ruolo dello Stato nel processo di modernizzazione. Un ambiente che trovò nel settore della pubblica amministrazione quell’ambito di sviluppo che consentì all’Italia di procedere nella trasformazione delle sue strutture. Il fatto che tale ambiente umano e politico sia stato ideologicamente poco motivato non ha rappresentato un elemento frenante: anzi, proprio l’essere pragmatico e attento ai segnali dei tempi ha permesso a questo settore del mondo fascista di essere fra i più aperti, tra quelli che sono stati in grado di elaborare un modello di amministrazione pubblica destinata a durare anche dopo la conclusione del regime, in tutt’altro contesto politico e istituzionale.

GIUSEPPE PARLATO

Giuseppe Parlato, nato a Milano nel 1952, è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Luspio di Roma e presidente della Fondazione Ugo Spirito. Fra le sue ultime pubblicazioni: Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia (1943-1948) (2006); La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato (n. ed. 2008); Mezzo secolo di Fiume. Economia e società a Fiume nella prima metà del Novecento (2009); Gli italiani che hanno fatto l’Italia. 151 personaggi per la storia dell’Italia unita (1861-2011) (2011).

INDICE GENERALE

Prefazione

Capitolo Primo
Infanzia e adolescenza, fra sogni e miti

Capitolo Secondo
Volontario nella Prima guerra mondiale

Capitolo Terzo
Prigioniero in Germania

Capitolo Quarto
Il mancato riconoscimento dei meriti militari

Capitolo Quinto
Ritorno in Umbria: dal nazionalismo al fascismo

Capitolo Sesto
Da squadrista a sindaco

Capitolo Settimo
Tra Misuri, Pighetti, Felicioni e Bastianini:
quale fascismo?

Capitolo Ottavo
Il difficile compito di sindaco di Castiglione

Capitolo Nono
Nella Milizia

Capitolo Decimo
Comandante del reparto autonomo
della MVSN a Lipari

Capitolo Undicesimo
A Trieste come comandante
della legione «San Giusto»

Capitolo Dodicesimo
Al comando delle 3ª legione libica

Capitolo Tredicesimo
La guerra sul fronte africano:
alla conquista di Sidi el Barrani

Capitolo Quattordicesimo
Dalla difesa di Bardia al rientro in Italia

Capitolo Quindicesimo
L’attività politica in Libia

Capitolo Sedicesimo
Incapacità e disfattismo dei vertici militari

Capitolo Diciassettesimo
Con la «Tagliamento» in Russia

Capitolo Diciottesimo
Da Torino come comandante della I zona CCNN…

Capitolo Diciannovesimo
…alla Slovenia come comandante
del raggruppamento «21 Aprile»

Capitolo Ventesimo
La milizia dal 25 luglio all’8 settembre 1943

Capitolo Ventunesimo
Nella RSI più per la Patria che per il fascismo

Capitolo Ventiduesimo
Vice di Mussolini al comando della GNR:
«Solo contro tutti!»

Capitolo Ventitreesimo
25-26 aprile 1945: da Milano a Como

Capitolo Ventiquattresimo
La cattura, i processi e il «ritorno» alla vita civile

Documentazione fotografica

Ringraziamenti

Bibliografia

Indice dei nomi

 

 

    1 Commento

  • Paolo M. De Gaetano P. ha detto:

    Il libro è ricco di particolari che fanno pensare ad un buon impegno dell’Autore sull’argomento. Ma perchè riportare ancora la leggenda del tradimento degli Ammiragli, nata perchè non si capiva perchè gli Inglesi sapessero tutto sulle nostre rotte ? Trent’anni dopo gli Inglesi hanno messo a disposizione la documentazione relativa al loro centro di Bentchley Park, alla cui efficienza si devono purtroppo molti successi dela loro marina.A Bentchley Park un gruppo divenuto col tempo più numeroso di specialisti e di scienziti riusciva quasi sempre a decifrare i messaggi italiani e tedeschi nelle 24 – 48 ore.
    Vedere a su questo argomento “Il vero traditore” di Alberto Santoni e
    l’Odissea di un Marinaio del Viscount Cunningham.
    Gli Inglesi si potrebbero tisentire
    Cordialmente,

    Paolo De Gaetano!

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