«TAGLIAMENTO»


 Presentazione

«…Stridono sul Nevskji i pattini, stridono

su ridicoli slittini infantili,

trasportano acqua in pentole azzurre,

legna e masserizie, morti e malati…

fischiano le granate, il cielo infuria…

“Compagni, siamo nel cerchio di fuoco!” …

Giù il berretto, cittadino!

Un leningradese trasportano,

caduto al suo posto di battaglia.»

 

Compagni, nel cerchio di fuoco è forse la più celebre, e comunque una delle più commoventi e strazianti tra le poesie contenute nel canzoniere Diario di febbraio, ora accessibile anche in italiano grazie alla preziosa traduzione di Nadia Cicognini per l’editore Marsilio. Ne è autrice Ol’ga Berggol’c: bellissima, coraggiosa, ispirata, per i lunghi 900  giorni dell’assedio tedesco di Leningrado – dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944 –, Ol’ga ogni giorno alla radio accompagnò il calvario dei suoi concittadini che morivano di bombe, di freddo, di fame, di paura. E anche di sevizie, perché nella città martoriata non si allentò un giorno solo nemmeno la morsa della polizia di Stalin il quale odiava la città rivale di Mosca e la considerava – del resto non a torto – un covo della sovversione antibolscevica.

Del resto Ol’ga , il cui padre era stato mandato al confino nonostante fosse un medico stimato e necessario in città, non perdeva occasione, quando le era possibile, di denunziare gli stessi abusi e la retorica del regime: che l’accusò di «doppiogiochismo» e nel 1975, quando essa morì, le negò – a lei, la voce dei sopravvissuti alla tragedia – il diritto di venire sepolta accanto al marito. Ora, sempre grazie a Marsilio, possiamo leggere la testimonianza di quella forza e di quella pena nel suo Diario proibito.

Il lungo assedio costò ai leningradesi quasi 720.000 morti: tale fu l’altissimo prezzo di molte opere d’arte che esso fu in grado d’ispirare. Non solo poesia, ma anche la musica di Dmitrij Šostakovič che aveva cominciato a comporre la sua famosa Settima Sinfonia prima dell’inizio della guerra per poi  abbandonarla e riprenderla quindi commosso e ispirato dall’eroica resistenza della città di Pietro il Grande. Il 9 agosto del 1942 – il giorno che Hitler aveva stabilito per celebrare il suo trionfo all’Hotel Astoria, di fronte alla cattedrale di Sant’Isacco – la Settimafu presentata agli abitanti della città martire in un grande concerto e trasmessa via radio, mentre tutti gli altoparlanti la diffondevano a suono spiegato inondandone le vie e le piazze.

L’ascoltarono anche i tedeschi: e capirono forse in quel giorno, dinanzi a quelle note, che Leningrado poteva forse venire anche distrutta, ma che non si sarebbe mai piegata.

Erano giorni di lotta e di sacrificio, di sofferenze e di eroismo per tutti: in Russia e altrove, ma in Russia forse più che altrove.

Appunto nell’agosto del 1942 molto più a sud di Leningrado, sul fronte del  Don, si andava consumando la drammatica epopea dei reparti italiani che avevano costituito prima il CSIR, poi l’ARMIR, tra i quali si distingueva, come rappresentante della «quarta forza armata nazionale» – la MVSN –, la 63ª legione CC.NN. d’assalto «Tagliamento», originariamente costituita su base territoriale di legionari friulani, ai quali si erano quindi aggiunti degli emiliani. I volontari della «Tagliamento», all’origine in gran parte veterani che avevano già fatto le loro esperienze di guerra in Africa Orientale, in Spagna, in Albania, sul fronte occidentale e che quindi erano almeno dei trentenni, spesso addirittura quarantenni (ce n’erano difatti alcuni che portavano ai polsini della giacca dell’uniforme le fatidiche «trecciole» rosse di squadrista), erano ormai sul fronte russo da oltre un anno e avevano preso parte, con forti perdite, a episodi come la «battaglia di Natale» del 1941. Combattevano con un coraggio e un’abnegazione che avevano già guadagnato al loro reparto e al suo originario comandante, il console Nicchiarelli, riconoscimenti e decorazioni. Sapevano bene del resto di non potersi mai permettere il lusso di mollare: i sovietici distinguevano anche da lontano le loro camicie nere dalle grigioverdi dei loro commilitoni dell’esercito, e i commissari politici di reparto, i politruk, avevano l’ordine di trattare «i soldati fascisti» alla stregua delle SS germaniche, cioè di fucilarli sul posto se li avessero catturati in combattimento (era del resto noto, appunto, che nonostante la convenzione internazionale le SS non facevano prigionieri). Malgrado ciò, pare che i militi della «Tagliamento» si distinguessero in generale, per tutta la durata di quella crudele campagna, anche per un costante atteggiamento di correttezza e di rispetto nei confronti dei nemici e delle popolazioni civili: il che parrebbe attestato non solo dalle fonti d’archivio italiane consultate da Stefano Fabei per redigere lo studio qui presentato (e che sono in genere più affidabili e fededegne delle narrative), ma anche dalle testimonianze dell’altra parte: come da una straordinaria intervista rilasciata nel 1961 da un personaggio almeno in ciò insospettabile, Nikita Chruščev, in cui si conferma come i «soldati fascisti» fossero gli italiani più temuti e odiati dai sovietici ma altresì che le Camicie nere si fossero talora imposte alla loro ammirazione, oltre che per il valore, per le doti di umanità. Raccogliendo le testimonianze, che appaiono attendibili, di alcuni cappellani militari l’autore del saggio qui presentato, Stefano Fabei, ha potuto sottolineare anche la loro diffusa, profonda, sincera fede religiosa. E tutto ciò – pur tenendo presente che nessuna fonte storica è mai certa e che ogni legge ha le sue eccezioni – significa pur sempre qualcosa. Magari molto.

Vi sono cose e persone nei confronti delle quali vige l’imperativo di costantemente ricordare, mentre su altre cose e altre persone sembra viceversa obbligatorio stendere la pesante cappa dell’oblio. Dalla lapide collocata a Padova a cura dell’Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia in ricordo dei 200.000 combattenti italiani caduti in Russia, si evince che il maggior contributo di sangue sia stato versato dalle divisioni degli Alpini; dei reparti della Milizia, nessuna traccia; ad essi non spetta alcuna menzione. È così che, secondo i dettami esposti in 1984 di Orwell, si «riscrive» la storia.

Anche questa, in fondo, è una forma di «revisionismo».

L’accurata, per certi versi addirittura ostinata, ricerca di Stefano Fabei ricostruisce invece puntigliosamente la storia della «Tagliamento»: vale a dire dei diversi reparti che, in tempi e circostanze differenti, si fregiarono di questo nome: da quelli della MVSN sul fronte russo, poi passati a costituire la 1ª divisione corazzata CC.NN. «M», a quello presente negli organici della GNR durante la Repubblica Sociale, del quale ha parlato anche un testimone-scrittore come Carlo Mazzantini. Sarebbe un vero peccato e un’autentica ingiustizia, anzi un’offesa nei confronti dei probi ricercatori che dedicano alla storia la loro fatica, se questo libro finisse nel limbo delle opere considerate di curiosa erudizione o, peggio, di memorialistica «di parte». Siamo dinanzi a un contributo prezioso di storia militare, che contribuisce a gettare una luce ulteriore e per molti versi nuovi su una pagina importante della Seconda guerra mondiale.

Ma ciò non basta ancora. Una purissima coincidenza ha voluto che, negli stessi mesi nei quali attendevo alla lettura del manoscritto del Fabei, l’editrice

Florence Press mi affidasse anche l’Introduzione a un libro già pubblicato dalla Sugar nel 1963 e – come tanti altri libri «scomodi» – non tanto dimenticato quanto piuttosto, ormai, introvabile: Tecnica della sconfitta del giornalista-storico Franco Bandini, un senese aspro e scontroso che si è occupato anche di argomenti come le controverse circostanze dell’assassinio

dei fratelli Rosselli e di quello di Mussolini. Se per essere definiti storici sono necessari i galloni di una cattedra accademica, Bandini era un giornalista; ma se chi è tale lo è in quanto sa trovare e interpretare in modo originale e attendibile documenti di prima mano e su quella base ricostruire fatti, istituzioni e strutture, allora perdinci Bandini lo era eccome.

Una rilettura parallela dei lavori del Bandini – che, dopo aver ricostruito i precedenti dell’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, ne ricostruisce con piglio microstorico i 40 decisivi giorni del 1940, dal 29 maggio (Dunkerque, la capitolazione del Belgio, il controverso ruolo di re Leopoldo) all’8 luglio (il giorno nel quale le corazzate Littorio e Vittorio Veneto vennero inspiegabilmente trattenute da Supermarina alla fonda nel porto di Taranto, mentre avrebbero potuto e dovuto uscire in mare aperto e contrastare vittoriosamente la flotta britannica dell’ammiraglio Cunningham) – e del Fabei servirebbe in modo eccellente a farci meglio comprendere come il nostro Paese abbia affrontato sulla base delle scelte politiche di Mussolini (del resto condivise o non efficacemente contrastate da chi avrebbe pur avuto i poteri, i mezzi e le informazioni sufficienti a farlo) un conflitto cui non era preparato e dalla partecipazione al quale contava di ricavare preziosi vantaggi con poco sforzo e spese minori ancora. Il Bandini dimostra efficacemente come il Duce – che d’altronde non aveva adeguata preparazione in campo militare né disponeva di alcuna predisposizione tattico-strategica – non potesse farsi illusioni sulla tenuta delle nostre forze armate, ma si fondasse unicamente su considerazioni appunto di natura politica; e come Hitler e gli alti comandi germanici fossero in fondo tutt’altro che convinti dell’opportunità di quell’«aiuto» italiano che si rivelò quasi immediatamente un aggravio per i compiti della Wehrmacht, costretta a intervenire di lì a poco sul fronte nordafricano e su quello greco-balcanico. Il Fabei ci offre senza alcuna pietà un quadro desolante dello stato dell’armamento degli italiani in Russia, antiquato e inadeguato rispetto non solo a quello dell’alleato germanico, ma ohimè soprattutto a quello del nemico sovietico; e ricostruisce in modo attendibile e ben documentato le ragioni generali che presiedettero alla decisione mussoliniana d’un intervento sul fronte russo ancora una volta tutt’altro che auspicato e incoraggiato da Hitler e dall’OKW. Il Fuhrer – che sul piano delle intuizioni e si può addirittura dire delle competenze militari era nettamente superiore al Duce – non aveva perduto alcuna occasione per sottolineare con esplicita e inequivocabile chiarezza, sia pure nell’ambito di un linguaggio ispirato alla discrezione diplomatica, che il ruolo geopolitico e tattico-strategico dell’Italia era quello di presidiare il Mediterraneo e di affrontare il nemico nel quadrante nordafricano e vicino-orientale, mentre sullo stesso ulteriore fronte mediorientale (quello irakeno-iraniano, strettamente connesso con quello caucasico-caspico vitale in termini di risorse petrolifere da conseguire) le prospettive italiane e quelle tedesche erano diverse, contrastanti e inconciliabili. Insomma, a proposito della Russia, ancora una volta il Duce e gli alti comandi militari italiani si rivelarono maestri in quella che il Bandini ha definito la «tecnica della sconfitta». Prevalenti, anche in tale circostanza, i presupposti/pregiudizi mussoliniani, del resto condivisi (non soltanto subiti) dalle alte gerarchie fasciste: partecipando all’aggressione contro l’URSS si riprendeva e si perfezionava quella «crociata

anticomunista» ch’era stata la causa principale, o comunque il più importante alibi, non tanto della fondazione dei Fasci di Combattimento quanto dell’attività squadristica prima, della «resistibile ascesa» al potere tra 1921 e 1925; e sì che, successivamente, l’Italia era stata la prima potenza occidentale a riconoscere la legittimità del governo sovietico e aveva avviato con l’URSS rapporti diplomatici corretti e per più versi amichevoli se non addirittura cordiali (con buoni riflessi sia sull’import/export che su certe attività culturali, la cinematografica ad esempio); né erano mancate voci fasciste ispirate a simpatia e talora perfino ad ammirazione nei confronti dell’Unione Sovietica, per quanto espresse soprattutto nell’ambito della «fronda» ch’era del resto la parte più composita e marginale ma anche la più libera e interessante di quel che restava del movimento fascista dopo l’affermazione del regime: e penso ad esempio ai ragazzacci intelligenti che animavano la redazione di fogli come Il Selvaggio o L’Universale.

Oltre alle pagine sulla preparazione dell’ingresso dell’Italia nell’avventura russa, significative mi sono parse, ancora, quelle sui giorni che precedettero e accompagnarono il 25 luglio del 1943, che videro quel che in un modo o nell’altro restava della «Tagliamento» inquadrato nella 1ª divisione corazzata CC.NN. «M» – l’élite della Milizia, armata, equipaggiata e addestrata «alla tedesca», concepita come una sorta di «Leibstandarte Adolf Hitler» destinata alla protezione della persona del Duce – e che manifestarono una volta di più uno di quei tratti che paiono originali e caratteristici, ohimè, dell’identità nazionale italiana postunitaria o comunque delle sue classi dirigenti e del suo ceto politico (nonché, magari, militare): la tendenza all’ambiguità, all’incertezza, al trasformismo, all’utilitarismo, al carrierismo. L’equivoca situazione istituzionale del Paese, incerta tra la «diarchia» monarco-dittatoriale, la formale eppur mai denunziata permanenza dello statuto albertino non a caso richiamato nella fatidica «notte di san Giacomo» in Palazzo Venezia, l’ambiguo ed incoerente potere dei ras e la rivalità tra esercito e Milizia, sfociò nella miserevole commedia della fuga degli alti comandi della MVSN dalle loro responsabilità e del loro rifugiarsi nella peraltro formalmente irreprensibile «fedeltà alla corona» nell’interesse «della Patria» e per evitare «le prospettive di una guerra fratricida» (che non è detto fosse inevitabile ma che sarebbe comunque, purtroppo, di lì a poco scoppiata: e della quale anzi fu proprio il 25 luglio drammatica premessa).

Una storia amara, per giunta non priva di tratti ridicoli. Una macrostoria drammatica, che serve tuttavia da adeguata cornice nella quale il Fabei magistralmente inserisce la microstoria delle vicende della «Tagliamento»: un

reparto militare costituito da «soldati politici» che senza dubbio trovavano nelle loro convinzioni fasciste la ragione primaria del loro spirito combattivo – e, nella fattispecie russa, del loro impegno anticomunista –, ma che tuttavia seppe in generale associare eccellenti prestazioni sul campo di battaglia a un comportamento corretto, generoso, ispirato al rispetto di quei valori umani che in guerra troppo spesso vengono purtroppo dimenticati (e non solo dagli eserciti dei regimi totalitari: si pensi alle vergognose recenti pagine del carcere di Abu-Ghraib in Iraq o dei bombardamenti su obiettivi civili dal Vietnam all’Afghanistan). Una storia ostentatamente dimenticata, che era giusto oltreché opportuno restituire alla nostra memoria collettiva.

Firenze, dicembre 2013

                                                                                        Franco Cardini

Franco Cardini e professore emerito di Storia Medievale presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane/Scuola Normale Superiore. Si occupa di rapporti tra Europa e mondo musulmano e di studi sulla cultura orientalistica europea. È direttore editoriale della rivista di geopolitica Il Nodo di Gordio.

Premessa

Il ruolo svolto durante la Seconda guerra mondiale dalle unità della Milizia fascista sui vari teatri in cui le forze armate italiane si trovarono a combattere, dall’Africa settentrionale alla Russia, dalla Grecia alla Jugoslavia, è stato fino a oggi minimizzato o, addirittura, di proposito ignorato, sia dalla saggistica a carattere storico-militare sia da quella che ha studiato il fascismo sotto l’aspetto politico. L’argomento è stato talvolta affrontato in misura piuttosto limitata, in modo indiretto, e spesso con un preciso intento denigratorio, in qualche saggio specialistico sulle operazioni belliche; nelle memorie dei reduci viene invece usato un tono apologetico, per dovere di testimonianza o come omaggio al sangue generosamente versato.

Una scrupolosa ricerca storica non può rinunciare a indagare con serenità e senza pregiudizi le ragioni, ideali o di altra natura, per cui combatterono i militi in camicia nera. Dal 1935 in poi la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN) fu mobilitata per esigenze di guerra e combatté, aggregata come quarta forza armata al fianco del Regio esercito, della Regia marina e della Regia aeronautica. Molti di questi reparti, impegnati in Africa orientale e settentrionale, in Spagna, nei Balcani, sulle Alpi occidentali o in Russia si distinsero per disciplina e spirito di sacrificio, per lealtà verso quella che ritenevano la loro Patria; altri si comportarono in modo diverso. Le Camicie nere non furono nella maggior parte dei casi inferiori ai fanti, ai bersaglieri o agli alpini, anzi. (Ri)conoscere tali fatti, spiegarli, indagare le tensioni ideali che ispirarono questi combattenti, non significa fare l’apologia di un regime finito nel lontano 1943, ma comprendere una fase della nostra storia nazionale.

Per quanto ci sia stata la volontà di rimuoverlo o dimenticarlo, si tratta di un capitolo che è e rimane, comunque, una parte di quest’ultima e in quanto tale costituisce oggetto di indagine, opportunità e strumento di riflessione.

Abbiamo cercato la verità con scrupolo e rigore: ogni affermazione trova fondamento nella documentazione scritta e ufficialmente custodita e non tanto nella facile e spesso labile memoria umana, anche perché i protagonisti

di quella storia sono ormai tutti, o quasi, morti. Per i periodi relativi alla fase dell’avanzata in Russia disponiamo di una notevole quantità di documenti, mentre per il periodo della ritirata meno ampie e dettagliate risultano le fonti ufficiali disponibili e ciò ci ha indotto, in misura piuttosto limitata per la verità, ad attingere alle «memorie» di alcuni protagonisti di quei tragici eventi. La disparità dell’ampiezza delle notizie e la quantità dei dati forniti a proposito dei vari reparti e dei vari momenti non dipendono da una nostra trascuratezza, ma proprio dal rispetto che abbiamo posto verso le fonti documentarie; quando esse scarseggiano, la narrazione risulta necessariamente più scarna, meno dettagliata.

Le notizie contenute nei documenti compilati dai reparti sono state sempre verificate con quelli delle autorità superiori, passate al vaglio dei comandanti non appartenenti alla Milizia e talvolta – anzi, nella maggior parte dei casi – neppure con questa simpatizzanti. Di conseguenza hanno particolare valore i riconoscimenti provenienti dai vertici delle unità superiori dell’esercito: qualche volta riportati con scrupolo negli ordini del giorno e nelle comunicazioni di elogi e di ricompense ai reparti o ai singoli, risultano più evidenti nei momenti in cui la lotta si fece più cruenta.

INDICE GENERALE

Presentazione

Premessa

Capitolo I

La partecipazione dell’Italia alla «lotta contro il bolscevismo»

Capitolo II

Il CSIR e l’ARMIR

Capitolo III

Le unità italiane sul fronte russo (1941-1943)

Capitolo IV

Mobilitazione e addestramento della 63ª legione CC.NN. d’assalto

Capitolo V

La «Tagliamento» dall’Italia al fronte russo

Capitolo VI

Dalla manovra di Petrikovka alla presa di Stalino

Capitolo VII

La battaglia di Natale

Capitolo VIII

La mancata riconoscenza della nazione

Capitolo IX

Dalla 63ª legione al gruppo CC.NN. «Tagliamento»

Capitolo X

Il gruppo CC.NN. «Tagliamento»

Capitolo XI

La prima battaglia difensiva del Don

Capitolo XII

L’offensiva russa e la ritirata dell’Asse (Dicembre 1942 – Marzo 1943)

Capitolo XIII

I reduci del «Tagliamento» nella divisione corazzata CC.NN. «M»

Capitolo XIV

I legionari di Mussolini traditi dai vertici della milizia

Appendice

Bibliografia

Indice dei nomi

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