LA GRANDE GUERRA E LA RIVOLUZIONE PROLETARIA


la-grande-guerra-e-la-rivoluzione-proletariaIntroduzione

Questa ultima fatica di Stefano Fabei costituisce un significativo punto di arrivo degli studi che l’Autore ha svolto negli anni sul tema.

È abbastanza curioso che la storiografia sul sindacalismo rivoluzionario si sia fermata agli anni Settanta, agli studi di Riosa e di Furiozzi, con l’eccezione dell’ottima biografia di Alceste De Ambris scritta qualche anno fa da Enrico Serventi Longhi.

Il lavoro di Fabei entra nel dibattito storiografico ricuperando una dimensione metodologica che sembrava perduta e cioè la ricostruzione del confronto culturale e dottrinale dei sindacalisti rivoluzionari in occasione dello scontro tra interventisti e neutralisti. L’Autore, positivamente, parte da lontano e cioè dalla nascita del sindacalismo rivoluzionario medesimo, convinto che nel dibattito ideologico che ne caratterizzò l’origine, vi siano molte delle ragioni in grado di spiegare la fine di due miti che sembravano intramontabili nel sindacalismo dei soreliani italiani: il pacifismo e l’internazionalismo.

Scorrono nel volume i personaggi che diedero vita a questa eresia del Marxismo, foriera di sviluppi assolutamente peculiari (basti pensare, ad esempio, all’importanza che Zeev Sternhell conferì all’elaborazione soreliana in Francia, negli ultimi venti anni del XIX secolo, sostenendo che in quel momento fosse nato, sostanzialmente, il Fascismo): la fusione di socialità (o di Socialismo) e di nazione rappresentò un modello politico in grado di sradicare una serie di punti fermi e di mescolare le carte in prospettiva di una sintesi nuova. Da Olivetti a Dinale, da Leone a Mantica, da Rossoni a Bianchi, da De Ambris a Corridoni, da Panunzio a Mussolini si dipana nel volume di Fabei un’analisi dettagliata e minuziosa del pensiero sindacal-rivoluzionario.

Esso fu l’anima dell’interventismo rivoluzionario e da esso ebbe inizio il turbolento dopoguerra, fatto di sovversivismo e di richiami all’ordine; da esso partirono sia il Fascismo sia l’antifascismo, a dimostrazione che movimenti culturali complessi diedero spunti e personaggi a momenti storici e politici contrapposti.

Se Corridoni, dopo la guerra abbondantemente “utilizzato” dal Fascismo, forse in una sorta di contraltare dell’antifascista – ma corporativo – Alceste De Ambris, non fosse caduto alla Trincea delle Frasche nel 1915, quale posizione avrebbe assunto dopo il 1920?

Il discorso vale per molti di questi personaggi: tra “fascisti critici”, fascisti delusi, fascisti inconsapevoli ma consapevolmente antifascisti, vi è un interessante campionario di posizioni difficilmente compatibili.

Si trattò infatti di un mondo ad altissima tensione ideologica, e questa tensione è resa bene nel volume, che segue le singole posizioni con cura attenta e dando al lettore un quadro finalmente completo delle varie sfumature di pensiero e dei vari comportamenti.

Lo “scandalo” rappresentato dall’adesione alle ragioni della nazione, in grado di essere più cogenti delle ragioni dell’internazionalismo, non può essere paragonato alle scelte del Socialismo più o meno riformista europeo, che, com’è noto, aderì, in Germania come in Francia, in Austria come in Gran Bretagna, alle tesi dei rispettivi governi. Nel caso del sindacalismo rivoluzionario italiano ci fu dell’altro: la consapevolezza che si poteva essere nazionalisti e rivoluzionari nello stesso tempo; i sindacalisti rivoluzionari italiani sono “casualmente” alleati di Salandra e di Sonnino, sono per pura combinazione in sintonia – loro, repubblicani intransigenti – con Sua Maestà. E un po’ tutto ciò a costoro dispiace; non comprendono anzi come lo possa essere la Corona, visto che questa guerra avrebbe portato alla rivoluzione. C’è un po’ di Lenin in questa convinzione ma, a differenza dell’autore delle Tesi di aprile, i soreliani italiani guardano alla rivoluzione in termini non lesivi dello Stato. Un modo un po’ strano di pensare alla rivoluzione. Alla fine della guerra ebbero torto entrambi, sia i soreliani, sia il Re. I primi non fecero la rivoluzione ma la fecero fare a Mussolini, alcuni d’accordo, altri ferocemente contrari; il Re credette di servirsi dei fascisti per evitare la rivoluzione e per un verso la evitò, quella socialista. Non riuscì a evitare quella fascista, che comunque indirizzò l’Italia su piani ben diversi da quelli che Vittorio Emanuele III e Giolitti avevano ipotizzato e sperato.

A leggere questa interessante documentazione riordinata con intelligenza da Fabei, si resta colpiti per la forte dose di ingenuità che i sindacalisti rivoluzionari mostravano nel concepire la guerra: qualcosa di pedagogico, di totalmente esaltante, di fortemente sovversivo. Gli ingredienti del totalitarismo, in qualche modo.

Ma una cosa non riuscirono a comprendere i soreliani italiani: che la loro visione di un autogoverno delle categorie, di una società organizzata in termini sindacali, con poco Stato e con molta responsabilità di categoria sarebbe stato cancellato dopo la guerra, allorché lo Stato dimostrò come il peso  che aveva accumulato durante il conflitto, inserendosi profondamente nel tessuto economico, non sarebbe stato abbandonato. Nel dopoguerra lo Stato era diventato una realtà pesante nella società e il Fascismo non avrebbe trovato ostacoli nell’affermare, in netto contrasto con i sindacalisti, un ruolo dello Stato che andava anche ben oltre il peso del Partito fascista e, ancora di più, dei sindacati, anch’essi diventati organismi di diritto pubblico.

Un fallimento, quindi? Certo una delusione forte che coinvolse non soltanto quanti optarono per l’antifascismo, ma anche gli stessi fascisti, i quali fino agli anni finali del regime si interrogarono sulla giustezza di quelle scelte maturate prima e durante il conflitto.

Scelte che divennero l’anima della costituzione della Reggenza del Carnaro e in qualche modo rimasero un fiume carsico e che ogni tanto, soprattutto nei momenti di crisi del regime, riemersero mostrando come i protagonisti non avessero dimenticato né il pensiero, né il fascino delle molte battaglie sindacali e popolari combattute prima e durante la guerra.

Giuseppe Parlato

Giuseppe Parlato, professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT), è presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. Tra le sue più recenti pubblicazioni Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, Il Mulino 2006.

Premessa

Un secolo fa, tra l’agosto del 1914 e il maggio del 1915, mentre in Europa già infuriava lo scontro tra gli eserciti delle più importanti potenze, l’Italia fu teatro al suo interno di contrapposizioni spesso drammatiche tra due fronti variegati e compositi, quello neutralista e quello interventista. Il primo comprese la maggioranza dei cattolici, contrari all’ingresso nel conflitto per fedeltà ai principi evangelici, per il desiderio di non andare contro la cattolicissima Austria-Ungheria o soltanto perché ai loro occhi la guerra era espressione di ateismo e si sarebbe fatalmente rivelata come un’«inutile strage», per usare la locuzione impiegata il 1° agosto 1917 da papa Benedetto XV, nel tentativo di porvi fine con la Lettera ai Capi dei popoli belligeranti; la maggioranza dei socialisti, riuniti nel PSI, che ritenevano la conflagrazione dannosa soprattutto per le classi meno abbienti e volevano proteggere gli interessi sovranazionali della Seconda Internazionale socialista. Oltre a queste due componenti di massa, il fronte neutralista comprese altre forze: Giolitti e i liberali giolittiani, i quali, come una parte consistente dell’ex Sinistra storica e i liberali di tradizione risorgimentale-cavouriana, ritenevano di poter ottenere comunque dall’Austria-Ungheria, in cambio della neutralità e della non-aggressione, almeno una parte delle terre irredente. Non si trattava di pacifisti o neutralisti a priori – alcuni avevano infatti sostenuto la guerra di Libia – ma di uomini, fra cui Benedetto Croce, che consideravano l’Italia impreparata a uno scontro con gli Imperi centrali, rapido e vittorioso come affermato dai nazionalisti più convinti: il conflitto avrebbe causato gravi danni e ingenti perdite, umane e materiali. Contrari alla guerra furono inoltre: una parte minoritaria dei radicali, come Ettore Sacchi, che evitò di pronunciarsi a favore della guerra, rimanendo isolato nel suo gruppo; molti industriali interessati a produrre per l’esportazione e che speravano di poter sostituire sui mercati internazionali la Germania impegnata nella guerra; alcuni pacifisti e antimilitaristi per convinzione personale, sia cristiani sia laici, come la maggioranza degli anarchici.

Non meno variegato si rivelò il fronte interventista, comprendente i liberal-conservatori e gran parte dell’ex-Destra storica, che speravano in un rafforzamento in senso autoritario delle istituzioni: tra loro Antonio Salandra e Sidney Sonnino, Luigi Albertini e «Il Corriere della Sera»; la monarchia e gli ambienti militari, desiderosi di una crescita del prestigio del regno e dell’esercito; gli irredentisti, i repubblicani e la maggioranza dei radicali, i quali ritenevano la guerra una prosecuzione del Risorgimento e delle imprese garibaldine e mazziniane, un’occasione per liberare le terre rimaste in mano austriaca ed eliminare una volta per tutte lo scomodo vicino e nemico risorgimentale. I nazionalisti, e con loro intellettuali come Enrico Corradini, Gabriele D’Annunzio e Giovanni Verga, esaltavano la guerra come strumento di imperialismo, per dare potenza e prestigio alla nazione. Su posizioni analoghe i futuristi con Filippo Tommaso Marinetti, per il quale la guerra era la sola igiene del mondo, un atto rivoluzionario e rigeneratore della società, che avrebbe eliminato le vecchie istituzioni.

Dello stesso fronte erano poi partecipi: la massoneria; alcuni cattolici tradizionalisti, desiderosi di scendere in campo al fianco dell’Impero austro-ungarico, la monarchia cattolica per eccellenza; i rappresentanti dell’industria pesante, i quali avrebbero fatto ingenti guadagni attraverso la produzione bellica; alcuni socialisti riformisti e i sindacalisti rivoluzionari. Questi speravano che la guerra avrebbe accelerato il compimento della rivoluzione socialista. Su posizioni analoghe Benito Mussolini, futuro capo del Fascismo.

Cercheremo in questo libro di ricostruire le fasi attraverso le quali il sindacalismo rivoluzionario italiano, o meglio, alcune tra le sue più rappresentative componenti, passarono, tra l’agosto del 1914 e l’inizio del 1915, dal campo neutralista a quello interventista. Considerato nel quadro più vasto di quest’ultimo, della sua azione ideologico-politica, delle sue agitazioni, del suo contributo all’ingresso italiano nel Primo conflitto mondiale, potrebbe sembrare che l’apporto dell’interventismo sindacalista sia stato minore rispetto a quello di altre forze e di alcuni grandi giornali come «Il Corriere della Sera», ma, vedremo, non è così. Una sua approfondita analisi permette, inoltre, di comprendere lo stato critico in cui si trovava il movimento rivoluzionario nel nostro Paese – socialisti, anarchici, sindacalisti e repubblicani – al momento dell’attentato di Sarajevo e all’inizio delle agitazioni in favore dell’entrata dell’Italia nel conflitto.

La crisi da cui prese le mosse l’interventismo di sinistra si accentuò notevolmente proprio in seguito alla rottura operata in questo fronte dai sindacalisti, il cui apporto alla causa della partecipazione alla guerra va considerato non solo come strumento di pressione sulla classe dirigente, sul governo, ma anche per la confusione e l’incertezza che esso seminò tra le file rivoluzionarie, in quelle socialiste soprattutto, con il conseguente indebolimento della loro capacità di opporsi all’ingresso dell’Italia tra le potenze belligeranti.

Nel biennio 1912-1914 il fronte rivoluzionario si era, senza dubbio, consolidato. Episodi di tale rafforzamento erano stati il congresso socialista di Reggio Emilia, il rapido affermarsi di Mussolini alla direzione dell’«Avanti!» e a quella del PSI, la costituzione dell’Unione sindacale italiana. Il socialriformismo era stato sconfitto e se l’U.S.I. non rappresentava un concorrente molto pericoloso per la CGdL la sua sola presenza costituiva il fatto nuovo da cui l’azione confederale non poteva prescindere e da cui era destinata a essere spinta su posizioni più radicali. Occorre poi ricordare che la politica del nuovo direttore del quotidiano socialista aveva avuto un’eco molto vasta in tutto il mondo sovversivo. Questo aveva visto cadere, o comunque perdere importanza, tutte quelle barriere che fino a qualche anno prima avevano diviso le sue componenti: l’idea di un’unità politico-organizzativa delle forze rivoluzionarie aveva fatto molta strada, anche se tra vivaci polemiche e contrasti, e si era concretizzata in varie azioni unitarie. Le file dei partiti rivoluzionari si erano accresciute ed era aumentato anche un elettorato che condivideva le tesi dei leader più intransigenti. Nonostante tutto ciò questo mondo era in crisi: dottrinaria, morale e politica. Alcuni tra i suoi più importanti cardini ideologici, il pacifismo e l’internazionalismo, erano stati, e sempre più venivano, messi in discussione.

Il pacifismo, prima ritenuto quasi un dogma, era ormai considerato in termini che andavano oltre quelli classici delle guerre difensive o di liberazione. Molti erano stati i rivoluzionari a condannare l’impresa libica, polemizzando talvolta con durezza contro quei socialisti e sindacalisti che l’avevano giustificata e che avevano organizzato e diretto le proteste popolari contro di essa. Anche tra costoro, tuttavia, c’era chi non nascondeva la propria posizione, diversa da quella del tradizionale pacifismo proletario e del classico anticolonialismo. Alceste De Ambris era stato contrario all’aggressione alla Libia, ritenendola in contrasto con gli interessi del proletariato, ma ciò non voleva dire che egli si opponesse per principio a ogni guerra. Nel 1911 non era stato lontano dall’ammettere che questa potesse essere, in certe circostanze, un corso di pedagogia rivoluzionaria ma a condizione che fosse la «guerra» e non una «brigantesca gesta di prepotenza». L’esponente sindacalista riteneva che non sempre i conflitti avessero una potenzialità di pedagogia eroica e rivoluzionaria, meno di tutti, poi, quelli coloniali.

Si trattava di una posizione non molto diversa da quella assunta nel 1907 da Arturo Labriola quando, definendo l’antimilitarismo un momento della «tattica» socialista, lo aveva criticato a fondo sul piano teorico. La guerra era come una «macchina a vapore che può condurci rapidamente ad un porto oppure precipitarci in un burrone», una lama affilata che nelle mani del chirurgo dà la salute, mentre in quelle dell’assassino pone fine alla vita. In sintesi: non c’era una precisa regola cui potesse e dovesse attenersi il rivoluzionario. Non solo necessaria, ma anche utile allo sviluppo generale del Socialismo, poteva rivelarsi la guerra. Era stato inoltre messo in discussione l’antimilitarismo, in quanto l’esercito rappresentava lo Stato, ne era il difensore: pertanto il proletariato rivoluzionario, se voleva eliminare l’organizzazione politica del dominio borghese, non poteva certo arrestarsi di fronte all’esercito. Ma questo, secondo Labriola, non voleva dire che, in caso di conflitto, il proletariato avrebbe dovuto, sempre e comunque, disertare e impedire la mobilitazione: se si ammetteva che lo sviluppo di questa classe dipendesse da una forma di cultura nazionale o fosse determinato da una tradizione storica, la quale non poteva essere turbata senza conseguenze dannose per l’avvenire di una società determinata, si doveva anche riconoscere come il proletariato non potesse negare il suo contributo di sangue a un conflitto che, a parte l’arbitraria e difficile distinzione tra guerre di offesa e di difesa, tendeva a salvaguardare il regolare sviluppo della civiltà locale.

Idee del genere era possibile trovare soprattutto in singoli teorici o presso alcuni piccoli gruppi del movimento sindacalista rivoluzionario. La loro suggestione si estendeva però anche nel resto del mondo «sovversivo» italiano e a questo avevano contribuito sia la politica di unità rivoluzionaria portata avanti da Mussolini attraverso il Partito socialista sia la crisi morale e politica in cui l’estrema sinistra era stata precipitata dalla «Settimana rossa», il moto a carattere insurrezionale che, scatenato dal divieto governativo di tenere manifestazioni antimilitariste ad Ancona, attraversò l’Italia alla vigilia del conflitto. Gli scontri tra dimostranti e forza pubblica, iniziati nelle Marche e in Romagna, si allargarono a varie città italiane. Tra il 7 e il 14 giugno 1914, sembrò che il Paese potesse essere travolto dalla rivoluzione.

Le proteste indette congiuntamente dalle forze dell’estrema sinistra (socialisti, repubblicani, anarchici, sindacalisti rivoluzionari) per domenica 7 giugno, festa dello Statuto, giorno caro all’Italia monarchica e liberale, furono l’apice del movimento rivoluzionario che colse di sorpresa leader come De Ambris e Mussolini i quali fra l’altro si guardarono bene dal premere il piede sull’acceleratore dell’agitazione. Finita questa poi, alcuni, tra cui il futuro Duce, avrebbero gridato al tradimento confederale e cercato di sfruttare a loro vantaggio politico il fallimento dell’agitazione. Gli stessi comitati che erano sembrati la riprova di un piano preordinato finirono assai più per tentare di disciplinare città per città clamorosi e scomposti moti locali che guidarli a un identico e congiunto sbocco rivoluzionario. In queste condizioni quindi la Settimana rossa non solo si concluse in un clamoroso fallimento ma, soprattutto, stimolò un grande processo di ripensamento della strategia sovversiva. Tutto, dalla pratica alla teoria, doveva essere riconsiderato. Molti uscirono scossi dal fatto che quella clamorosa e inattesa dimostrazione dello spirito rivoluzionario presente in larghi strati proletari si fosse accompagnata alla conferma, agghiacciante, che un profondo e violento rivolgimento dell’ordine sociale era impossibile, almeno per il momento. La realtà aveva bruciato molti sogni e dimostrato come non si potesse fare la rivoluzione avendo di fronte tutto l’esercito, e rispondere con i sassi ai colpi dei cannoni e delle mitragliatrici. In sintesi: il proletariato non era stato, e non era, capace di prendere il potere secondo i classici schemi rivoluzionari. Bisognava quindi non lasciare svanire la carica che animava il movimento elaborando una nuova strategia.

In questo clima di tensione si inserì l’attentato di Sarajevo. La guerra scoppiò e poco dopo l’Internazionale e tutto il movimento socialista europeo ne furono travolti. Il Socialismo era diviso, scompaginato e in gran maggioranza portato a condividere la politica bellicistica dei rispettivi governi in conflitto tra loro. Fra l’agosto e il dicembre del 1914 l’interventismo dei sindacalisti rivoluzionari prese corpo e si arricchì dei motivi che vedremo. Per vie diverse, con motivazioni spesso tra loro antitetiche, dietro l’impulso di suggestioni mazziniane, risorgimentali e nazionalistiche i sindacalisti si schierarono per la partecipazione al conflitto.

Tre le motivazioni più significative che sarà opportuno anticipare, facendo riferimento a tre grandi esponenti del sindacalismo rivoluzionario italiano. Per Sergio Panunzio la conflagrazione europea avrebbe indebolito il capitalismo aprendo di conseguenza la strada all’affermazione del Socialismo e del sindacalismo; per lui l’interventismo era la logica conseguenza della posizione che aveva assunto dopo il congresso socialista di Ancona e che almeno nella parte di critica alle prospettive del rivoluzionarismo socialista la Settimana rossa aveva confermato. Dalla guerra in corso, e da quanto più essa fosse stata dura e lunga sarebbe, rivoluzionariamente, scattato il Socialismo in Europa. Alle guerre esterne sarebbero seguite le interne, cui avrebbe fatto seguito «la grande luminosa giornata del Socialismo», di un Socialismo che doveva essere voluto e che, dato il momento, era possibile ottenere. I sostenitori della causa della pace erano di conseguenza coloro che volevano conservare il capitalismo.

Organizzatore, più che teorico come Panunzio, Alceste De Ambris, prendeva in considerazione le conseguenze immediate del conflitto. Per lui bisognava soprattutto salvare le condizioni di vita e di libertà politica già conquistate dal proletariato italiano, base per un’azione rivoluzionaria, dalle conseguenze, interne e internazionali, di una vittoria del feudalismo e delle forze più reazionarie europee rappresentate da Germania e Austria-Ungheria. Il proletariato dinanzi a tale prospettiva doveva assumersi la sua parte di responsabilità perché nel caso in cui il kaiserismo e il pangermanesimo degli Imperi centrali avessero vinto, non vi sarebbe stata nessuna forza atta a controbilanciarli. Qualora, invece, quelle «roccaforti reazionarie» fossero state sconfitte si sarebbero avuti benefici economici, politici e morali, fra cui il Socialismo sollevato dall’ossessione pangermanistica e divenuto veramente internazionale, il sindacalismo autonomista e libertario al posto del centralismo autoritario e forse anche la rivoluzione dei popoli tedeschi liberati. La guerra era quindi necessaria per affrancare il mondo dai sopravvissuti, ingombranti detriti del Medioevo. Occorreva far trionfare la libertà, premessa per l’avvenire.

Considerazioni simili fece Filippo Corridoni, il quale in «Sindacalismo e Repubblica» colse il peso decisivo del fallimento della Settimana rossa e il conseguente ripensamento esercitato sull’interventismo rivoluzionario. A lui il sindacalismo appariva nella teoria e nella prassi solo un’anticipazione teorica, un argomento dialettico che era servito nella lotta al riformismo ma si era dimostrato irrealizzabile in un Paese quale l’Italia ancora, per tre quarti, precapitalistica, priva di una situazione economica e sociale avanzata e quindi in grado di permettere l’affermazione del sindacalismo stesso: questa situazione doveva pertanto essere creata. La guerra avrebbe liberato l’Europa dall’incubo del militarismo e della reazione germanica, assicurato al proletariato di poter continuare a usufruire delle conquiste già ottenute, permesso una politica di disarmo e di sviluppo economico che avrebbe accelerato il processo di proletarizzazione creando le condizioni necessarie al naturale gioco dei conflitti di classe, eliminando il falso Socialismo cooperativista, mutualista, politicantista, e conducendo inevitabilmente al trionfo del sindacalismo.

Le posizioni espresse da questi tre sindacalisti si caratterizzarono per realismo e pragmatismo; che fossero in antitesi con l’“ortodossia” poco importava. Se il contrasto, più o meno totale, di queste posizioni con l’ortodossia socialista e con le premesse del sindacalismo originario era innegabile, ed era certo l’abbandono dell’antimilitarismo e del pacifismo, tradizionali componenti del movimento operaio e socialista, era altrettanto evidente come i sindacalisti rivoluzionari, sollecitati dalla guerra, fino allora vista dai più come «la forma estrema, perché coatta, della collaborazione di classe», dai miti e dai sogni a essa legati, stessero cercando, più o meno consapevolmente, una nuova sintesi tra socialismo e nazionalismo, capace di promuovere – mediante il riattraversamento critico delle due idee ed esperienze alla luce tanto degli effetti fallimentari quanto della nuova realtà imposta dagli eventi – un nuovo processo di emancipazione sia economico-politica sia culturale e spirituale dei lavoratori.

La Grande guerra fu senza dubbio una tragedia, come tutti i conflitti del resto, ma fu anche un’occasione di ripensamento dei vecchi schemi interpretativi della realtà politica, sociale ed economica. Favorì, con altri fattori, lo scoppio della rivoluzione bolscevica in Russia e, come ci proponiamo di dimostrare in questa sede, fu il contesto in cui emersero in modo evidente molte di quelle idee che sarebbero state alla base del pensiero e della visione del mondo del Fascismo. Il lettore si accorgerà che di quest’ultimo, all’atto della nascita, il socialista eretico Mussolini fu in un certo senso più che l’inventore, la levatrice, colui che sintetizzò nella nuova dottrina politica posizioni, idee e suggestioni, espresse in modo talvolta incoerente con i presupposti ideologici originari, spesso percepiti come costrittivi e sclerotizzanti, dai sindacalisti interventisti.

Non contro la guerra, ma nella guerra, tanti sindacalisti rivoluzionari cercarono la loro rivoluzione, così come il socialista “eretico” Mussolini cercò la propria. Molti dei primi si sarebbero ritrovati al fianco dell’ex direttore dell’«Avanti», fin dal momento in cui, espulso dal PSI, scelse le élite, cominciando a svolgere il ruolo di sintetizzatore di queste ultime. Soltanto con «Il Popolo d’Italia» il pragmatico e realista uomo di Predappio capì infatti di non poter parlare alla massa dei lavoratori, sordamente ostile alla guerra. Poteva, bensì, raggruppare il variegato fronte della sinistra a essa favorevole, comprendente forze eterogenee: Bissolati e molti riformisti, desiderosi di legare l’Italia agli Stati democratici, come Francia e Inghilterra, contro quelli autoritari e conservatori, come Germania e Austria-Ungheria; repubblicani e irredentisti di tendenza risorgimentale e patriottica; sindacalisti rivoluzionari e barricadieri, per i quali il conflitto avrebbe logorato i Paesi capitalisti abituando il proletariato alla violenza e all’uso delle armi. «ll Popolo d’Italia» fu il portavoce di tutte queste posizioni, senza operare scelte particolari fino al 1918.

Accesi sostenitori dell’intervento, molti rappresentativi esponenti del sindacalismo rivoluzionario – con percorsi, sogni, orientamenti e riferimenti teorici e politici diversi – vollero rompere decisamente con determinate categorie del passato, sottrarsi agli schemi astratti, ormai incapaci di illuminare l’azione rivoluzionaria in una situazione eccezionale e per certi versi imprevista, meritandosi anche loro l’accusa di essere eretici, senza peraltro che questa li scandalizzasse: «Nessuna audacia di concezione, nessuna novità, nessuna contraddizione» – affermò, non diversamente da Corridoni, Alceste De Ambris – «può spaventare il sindacalista rivoluzionario, il quale non ha da temere di cader nell’eresia, pel solo fatto che un’ortodossia non esiste nel Sindacalismo».

SOMMARIO

Introduzione

Premessa

Capitolo I

Italia 1914

Capitolo II

Neutralisti e interventisti

Capitolo III

Internazionale dei lavoratori e sindacalismo rivoluzionario

Capitolo IV

Azione diretta e sciopero generale

Capitolo V

Di fronte alla guerra

Capitolo VI

Tra i sindacalisti rivoluzionari si affaccia la tesi interventista

Capitolo VII

La febbre bellicista si diffonde anche tra gli anarchici

Capitolo VIII

13-14 settembre 1914: a Parma i sovversivi si dividono

Capitolo IX

«Pagine libere»

Capitolo X

A fianco di Mussolini

Appendice

Bibliografia

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