LIBRI

ARMANDO ROCCHI IL PREFETTO DEL DUCE A PERUGIA

Anno: 2023
Casa Editrice: Futura

«Siamo in guerra. Abbiamo tradito i tedeschi, nostri alleati. Dobbiamo salvare l’onore nostro. Se durante la guerra si fossero usati certi siste­mi come li usano i tedeschi contro i recalcitranti e i vigliacchi, il 25 luglio e l’8 settembre non sarebbero mai avvenuti!»

«Io non sono né un mostro né un angelo. Io non faccio che il mio do­vere… Ricevo degli ordini che debbo eseguire personalmente, e fare eseguire dagli altri.»
Armando Rocchi

Questa biografia di Armando Rocchi è la storia di un soldato del Novecento il cui percorso umano e politico è stato caratterizzato da una visione del mondo basata su senso del dovere e culto della patria e dal sangue freddo dimostrato fin da quando, giovane volontario nel Primo conflitto mondiale, fu gravemente ferito in Albania. Tor­nato a Perugia, nel 1921 aderì al fascismo. Entrato nel­la Milizia, partecipò alla Guerra civile spagnola, quin­di alla Seconda guerra mondiale. Volontario, dal 1941 combatté con il CII battaglione Camicie nere d’assalto nei Balcani, confermandosi comandante determinato e capace di fronteggiare le più difficili situazioni belliche.

Monarchico, nel 1943 reagì al crollo del regime e alla vergogna dell’armistizio aderendo alla Repubblica So­ciale Italiana. Capo della Provincia di Perugia dal 25 ot­tobre 1943 al 16 giugno 1944, s’impegnò nel controllo del territorio, nel contrasto alla renitenza alla leva e nel­la lotta antipartigiana, collaborando con i tedeschi che lo rispettavano per i suoi trascorsi militari, la lealtà e l’at­teggiamento non servile. Si oppose alle pretese naziste e della Federazione fascista repubblicana di consegnare gli ebrei, del cui salvataggio fu il primo responsabile cre­ando i presupposti per la loro liberazione. Ritiratosi al nord, per volontà di Mussolini diventò dall’agosto del 1944 Commissario straordinario per l’Emilia e la Roma­gna fino al 26 aprile 1945.

Con le vicende del protagonista l’autore ricostruisce al­cune pagine della RSI e della guerra civile, contestualiz­zandole e tenendo sempre presenti sia le memorie difen­sive di Rocchi, sia le versioni resistenziali. Emerge così un’immagine diversa e più complessa rispetto a quella di una vulgata che lo ha rappresentato come l’«uomo nero» fanatico, intransigente e crudele verso chiunque ritenesse nemico del fascismo e della Patria.

Una ricostruzione storica oltre quella visione «emiple­gica» del mondo per cui, sempre e comunque, il bene e i buoni sono stati solo da una parte e il male e i cattivi soltanto dall’altra.

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IL PREFETTO ROCCHI E IL SALVATAGGIO DEGLI EBREI Perugia – Isola Maggiore sul Trasimeno 1943-1944

Anno: 2020
Casa Editrice: Mursia

«Io invio tutti gli ebrei a Villa Guglielmi per il loro bene, so quello che faccio… il tempo vi farà capire che ho ragione di fare così… io non verrò mai a trovarvi, ma veglierò su di voi tutti.»
Armando Rocchi

Tra il 1943 e il 1944 il prefetto fascista di Perugia, per salvare dalla deportazione, pretesa dai tedeschi, circa trenta ebrei, italiani e stranieri, li internò, d’accordo con il questore Scaminaci, prima a Villa Ajò e all’Istituto magistrale, quindi al Castello Guglielmi dell’Isola Maggiore sul lago Trasimeno, affidandoli al controllo del seniore della Milizia Lana e dei giovani ausiliari ai suoi ordini. In questo modo Armando Rocchi creò i presupposti per la loro liberazione. La notte del 12 giugno tre o quattro ebrei fuggirono con alcune guardie scopertesi partigiani. Altri ventidue raggiunsero Sant’Arcangelo, dove erano appena arrivati gli inglesi, nelle notti del 19 e del 20 giugno 1944, grazie a don Ottavio Posta. Il parroco dell’isola, riconosciuto nel 2011 Giusto tra le Nazioni, con il poliziotto Baratta e con l’assenso del capo delle guardie, ne organizzò il traghettamento affidato a quindici pescatori. Un saggio ricco di documenti sull’occultamento e la liberazione degli internati.

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LA GUARDIA NAZIONALE REPUBBLICANA nella memoria del generale Niccolo Nicchiarelli. 1943-1945

Anno: 2020
Casa Editrice: Mursia

«Determinanti in quella scelta furono il senso del dovere e il desiderio di compiere per intero il proprio dovere di Italiani esasperatamente innamorati della Patria.»
Generale Niccolo Nicchiarelli

Tra le forze armate della RSI, la Guardia Nazionale Repubblicana fu la prima ad essere istituita e una delle più consistenti per numero di uomini. Vi confluirono le Camicie nere della Milizia e i Carabinieri, tra loro diversi per sentimenti politici e tradizioni: ne risultò, come disse Rodolfo Graziani, «un ibrido e naturalmente non riuscito connubio». Tuttavia la GNR, agli ordini di Renato Ricci, poi del Duce, cercò di assolvere i propri compiti, primo fra tutti il controllo del territorio. È quanto emerge dalla memoria di Niccolo Nicchiarelli il quale, incaricato nel 1943 di presentare un progetto di costituzione della Guardia, dall’estate del 1944 ne diventò, in quanto capo di Stato Maggiore di Mussolini, il vicecomandante. Con tale ruolo cercò di salvare i Carabinieri dai progetti di eliminazione tentati dai tedeschi con il sostegno dei fascisti intransigenti che consideravano la Benemerita fedele al re traditore. Per Nicchiarelli, invece, quest’arma, «unica forza di polizia disciplinata e tecnicamente preparata» a disposizione, doveva comunque essere salvaguardata per presidiare il territorio nazionale dopo la fine del fascismo e garantire la continuità dello Stato, a prescindere dalla sua caratterizzazione politica. La GNR aveva assoluta necessità dei Carabinieri per assolvere i servizi d’istituto che i provenienti dalla Milizia non potevano ancora conoscere e svolgere con adeguata preparazione.

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I CETNICI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Anno: 2017

Casa Editrice: Leg

Durante la Seconda guerra mondiale, in Jugoslavia, per ragioni differenti e ciascuna con finalità proprie, sia le forze dell’Asse, in particolare gli italiani, sia quelle alleate puntarono sulla carta dei cetnici. Questi nazionalisti serbo-ortodossi pertanto furono al contempo un movimento di resistenza e di collaborazione con gli occupanti e operarono in diversi modi, dovuti a una pluralità di situazioni e di fattori politici, militari e strategici, per conseguire l’obiettivo finale della conquista del potere e della restaurazione della monarchia quando tedeschi e italiani si fossero ritirati. Dalla storia dei cetnici e della loro collaborazione con gli italiani fino al 1943 e con i tedeschi nel biennio successivo emergono anche episodi poco conosciuti quali l’ambiguo atteggiamento di Stalin nei confronti del movimento di Mihajlovic o i tentativi da parte dei partigiani comunisti di pervenire ad accordi con i tedeschi per distruggere gli odiati nazionalisti serbi e per respingere un eventuale e temuto sbarco sulle coste adriatiche della Jugoslavia da parte degli Alleati, di cui i cetnici erano ritenuti la quinta colonna. Questa pagina poco nota di storia italiana e jugoslava, ricostruita soprattutto con materiale documentario degli archivi dello Stato Maggiore dell’Esercito e del Ministero degli Esteri, consente di scoprire il percorso di un movimento che nacque per combattere i croati e gli occupanti italo-tedeschi e poi finì per collaborare con entrambi, pagando pesantemente il prezzo dell’alleanza con la parte sconfitta. Aiuta inoltre a comprendere le tante e profonde ragioni per cui i popoli della Jugoslavia si sono massacrati, senza esclusione di colpi, non solo nel secondo conflitto mondiale, ma anche in tempi a noi più vicini. Negli anni Novanta del XX secolo, infatti, dopo decenni di mimetizzazione durante la dittatura di Tito, i cetnici sono tornati alla ribalta sia sui campi di battaglia sia sui mass-media, legittimati da Slobodan Miloševic e dal rinnovato sogno della Grande Serbia. La nuova, revisionistica, lettura del fenomeno è stata sancita nel 2014 con l’accettazione da parte dell’Alta corte di Belgrado della richiesta da parte degli ambienti nazionalisti di riabilitare Mihajlovic: in sintesi, cetnici e partigiani sono da ritenersi uguali, perché inquadrati nella comune lotta al nazi-fascismo.

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I GUERRIERI DI DIO
Hezbollah: dalle origini al conflitto in Siria

Anno: 2017

Casa Editrice: Mursia

«Per Hezbollah, creatura prediletta dell’Imam Khomeini, ogni luogo è Kerbala, ogni giorno è Ashura!»

A più di trent’anni dalla fondazione il Partito di Dio costituisce un organismo politico-militare sul quale molto è stato detto e scritto, spesso a sproposito, definendolo di volta in volta movimento integralista, gruppo terroristico sciita, creatura dell’Iran rivoluzionario al servizio della Siria. Dotato di una struttura tentacolare che ne ha fatto un’organizzazione attiva in campo sociale, culturale, assistenziale e militare, fin dalle origini oppositore determinato dell’imperialismo e già protagonista della liberazione del Libano da Israele, Hezbollah è conosciuto come la Resistenza islamica. Per comprenderne la complessa storia, questo saggio parte dal contesto libanese e mediorientale in cui il Partito di Dio è nato e cresciuto accompagnando il lettore nella conoscenza degli uomini, delle idee, delle azioni politiche e delle campagne militari di un soggetto che ha fatto del pragmatismo e della segretezza uno dei punti di forza.

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la-grande-guerra-e-la-rivoluzione-proletaria

LA GRANDE GUERRA E LA RIVOLUZIONE PROLETARIA

Anno: 2015

Casa Editrice: in Edibus

Un secolo fa, tra l’agosto del 1914 e il maggio del 1915, mentre in Europa già infuriava lo scontro tra gli eserciti delle più importanti potenze, l’Italia fu teatro al suo interno di contrapposizioni spesso drammatiche che riguardarono fronti compositi, uno favorevole all’entrata in guerra, l’altro contrario. In questo libro si ricostruiscono le fasi attraverso cui il sindacalismo rivoluzionario italiano – o meglio, alcune delle sue più rappresentative componenti – passò dal campo neutralista a quello interventista e quanto pesò tale contributo. Un’approfondita analisi permette, inoltre, di comprendere le condizioni critiche in cui si trovava il movimento rivoluzionario nel nostro Paese – socialisti, anarchici, sindacalisti e repubblicani – al momento dell’attentato di Sarajevo (28 giugno 1914) e all’inizio delle agitazioni in favore dell’entrata dell’Italia nel Primo conflitto mondiale a fianco delle forze dell’Intesa. Un ulteriore apporto alla comprensione delle origini del fascismo.

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STORIA DEL MAROCCO MODERNO

Anno: 2014

Casa Editrice: Irfan

Il saggio ricostruisce la storia del Paese nordafricano e della sua lotta per l’indipendenza, con particolare riguardo al ruolo dei movimenti di liberazione nazionalisti, islamici e di sinistra, della monarchia e delle potenze europee, dalla Francia alla Spagna, dall’Inghilterra alla Ger¬mania e all’Italia. Rappresentata l’origine e la caratterizzazione sociale, culturale e religiosa dei movimenti di liberazione marocchini (arabi e berberi), sono affrontati i rapporti di questi con i regimi fascisti, la sinistra francese e spagnola, i Fronti popolari e altre forze politiche eu¬ropee. Il libro analizza altresì il rapporto tra Islam, nazionalismo e lotta di liberazione, tra tradizione e modernità in quella parte del mondo arabo-islamico.

Il libro di Stefano Fabei segue l’evoluzione del nazionalismo in Marocco dall’affermazione del protettorato francese alla vittoria dei patrioti e di Muhammad V. L’opera rappresenta una novità nel panorama editoriale italiano, che, nel complesso, soprattutto in tempi recenti, poco si è interessato della storia moderna e contemporanea del Paese africano.

Massimo Campanini

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tagliamento«TAGLIAMENTO» La legione delle Camicie nere in Russia (1941-1943)

Anno: 2014

Casa Editrice: in Edibus

«Ho combattuto contro gli Italiani nel bacino del Donetz ed avevo di fronte proprio le Camicie Nere, che ritenevo i più malvagi fra gli Italiani. Avevano combattuto bene e pensavo che fossero accaniti contro di noi. Dopo avere interrogato numerosi prigionieri ho dovuto constatare invece che non avevano odio nei nostri riguardi.» (Nikita Sergeevič Chruščev)

Forse più di qualsiasi altra, la dichiarazione dello statista sovietico conferma il coraggio, la lealtà e la correttezza verso i civili delle Camicie nere della legione, poi gruppo, «Tagliamento», di cui, senza propositi adulatori né denigratori, è qui ricostruita la storia. I legionari in camicia nera, oltre a essere la «rappresentanza politica» delle forze armate italiane sul fronte russo, pagarono in termini di vite umane un prezzo finora misconosciuto.

Sulla base di una vasta documentazione d’archivio e dei diari storici dell’unità il lettore ha la possibilità di conoscere una pagina di storia nazionale finora volutamente ignorata.

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Il generale delle camice nere

IL GENERALE DELLE CAMICIE NERE

Anno: 2013

Casa Editrice: Pietro Macchione Editore

«Io nulla ho da rimproverarmi. Feci sempre con entusiasmo e con scrupolo il mio dovere di Italiano e di Fascista. L’amore di Patria è una tremenda, inguaribile malattia. Ed io sono malato di questa malattia.» (Niccolo Nicchiarelli)

Volontario sedicenne nella Grande Guerra, prigioniero in Germania, squadrista e sindaco fascista di Castiglione del Lago, il protagonista di questo libro ha vissuto molti eventi che hanno caratterizzato la storia d’Italia nella prima metà del XX secolo. Entrato nella Milizia di cui comandò la legione «Cacciatori del Tevere» e il reparto autonomo nella colonia di confino a Lipari, fu poi alla testa della legione «San Giusto» di Trieste e della 3a legione libica. Segretario federale a Bengasi e membro del direttorio del PNF, durante la Seconda guerra mondiale partecipò in Africa settentrionale alla conquista di Sidi el Barrani e alla difesa di Bardia, fu comandante della legione camicie nere «Tagliamento» in Russia, poi del raggruppamento «XXI Aprile» che ricondusse in Italia dalla Jugoslavia dopo l’armistizio. Aderì alla Repubblica sociale e fu al vertice della Guardia nazionale repubblicana. Imprigionato e processato nel 1945 fu assolto l’anno successivo. Attraverso l’attenta analisi di una grande mole di documenti, molti inediti, fra cui la Memoria sulla Guardia, l’autore racconta, insieme alla storia dell’ufficiale, quella, non apologetica né denigratoria, della Milizia fascista (MVSN), dalle origini al 1945.

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FASCISMO D’ACCIAIO

Anno: 2013

Casa editrice: Mursia

«Figlio di popolo, ho amato il popolo, ho combattuto per esso con onestà e fede. Sono stato prima Mazziniano poi Fascista, resto Mazziniano perché il grande Apostolo è il primo che ha insegnato al popolo ad amare: Dio, la Patria, la famiglia.» (Maceo Carloni)

Con le vicende politico-sindacali di Carloni è ricostruita la storia del fascismo a Terni, dove lo Stato fu istituzione politica e imprenditore, dalle origini alla Liberazione. Messa l’industria sotto la tutela del capitalismo statale, il regime offrì ai lavoratori occupazione e assistenza attraverso l’inquadramento nell’organizzazione sindacale-corporativa e facendo ruotare tutto attorno alla «fabbrica totale». La «Manchester d’Italia» fu un microcosmo in cui si rifletté la politica sociale del fascismo che durante la RSI riuscì a garantire l’amministrazione ordinaria, facendo funzionare le istituzioni, a contenere l’arroganza tedesca e a bloccare la guerra civile, relegando le attività della Resistenza nei territori periferici.

Dalle discussioni su sindacalismo e corporativismo all’elezione nella RSI delle commissioni di fabbrica, che videro eletti accanto ai fascisti anche socialisti e comunisti, e da cui nel periodo postbellico sarebbero sorti i consigli di gestione, presi a modello dal sindacato più rappresentativo, emerge un’immagine diversa del lavoratore nel regime: quella di un uomo che dall’esperienza della Grande Guerra imparò a pensare e a progettare la vita secondo un’ottica nazionale, attribuendo alla sua attività un senso etico e pedagogico.

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I NERI E I ROSSI

Anno: 2011

Casa editrice: Mursia

«La Storia, e proprio nei suoi periodi critici, sta a dimostrare che a risolvere i problemi non sono mai mancate le “idee” ma troppo spesso gli “uomini”.» (Corrado Bonfantini, Premessa per la ripresa del movimento marxista, Novara, marzo 1942)

«Poiché la successione è aperta in conseguenza dell’invasione angloamericana Mussolini desidera consegnare la Repubblica sociale ai repubblicani e non ai monarchici; la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghesi.»

Questa la proposta che il Duce, il 22 aprile 1945, compiendo la sua ultima manovra politica, consegna al giornalista antifascista Carlo Silvestri, convocato in prefettura a Milano, perché la recapiti all’esecutivo del PSIUP. È l’invito del dittatore al Partito socialista, con l’accordo del Partito d’azione e il tacito consenso del PCI, a prendere in consegna la città di Milano e a mantenere l’ordine pubblico, per cui mette addirittura a disposizione reparti della RSI. Deve essere questo lo sbocco dell’operazione «ponte» che Mussolini ha messo in atto da alcuni mesi con la collaborazione di Silvestri, di Edmondo Cione e in cui coinvolge il comandante  delle formazioni partigiane socialiste «Matteotti» Corrado Bonfantini. Ma l’intransigenza di Lelio Basso e, soprattutto, di Sandro Pertini fanno fallire questo progetto cui molti, da entrambe le parti, hanno guardato con opportunismo ma anche con sincera buona fede.

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OPERAZIONE BARBAROSSA

Anno: 2010

Casa editrice: Mursia

Con l’attacco del 22 giugno all’URSS Hitler gettò nel panico l’Armata Rossa e colse di sorpresa Stalin anticipandolo in quella guerra alla quale, nella sua strategia di aggressione, anche lui pensava di dare inizio, marciando verso ovest, non appena le forze sovietiche fossero state pronte. Non è una tesi provocatoria ma quanto emerge dagli archivi sovietici.

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LA «LEGIONE STRANIERA» DI MUSSOLINI

Anno: 2008

Casa editrice: Mursia

«Durante la Seconda guerra mondiale anche l’Italia ebbe una sua “legione straniera”, ma il suo impiego fu una delle tante occasioni mancate sia sul piano militare che su quello politico.»

 Tra le pagine poco note della partecipazione italiana al Secondo conflitto mondiale c’è quella relativa ai volontari stranieri che, inquadrati in vario modo nelle Forze Armate, combatterono per la causa del fascismo e dell’Asse, ma non solo. Uomini provenienti da aree diverse e spinti da diverse motivazioni.

Per gli arabi e gli indiani si trattò di passare dalla condizione di prigionieri a quella di membri del primo nucleo dell’esercito di liberazione dei propri Paesi. Nel caso dei serbi ortodossi, schierarsi al fianco del Regio Esercito fu, dopo lo smembramento della Jugoslavia, una scelta imposta dalla necessità di difendersi dalla politica persecutoria dei croati cattolici. Se per i cosacchi, i croati e gli sloveni determinante fu la scelta ideologica della lotta al comunismo, per i dalmati e i maltesi combattere sotto il tricolore significava scrivere con il sangue un’altra pagina del Risorgimento italiano.

Per la prima volta le storie, fatte di sogni e delusioni, di eroismi e atrocità, della «legione straniera» di Mussolini vengono ricostruite e raccontate in modo avvincente e con grande precisione sulla base di una vasta documentazione.

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CARMELO BORG PISANI

Anno: 2007

Casa editrice: Lo Scarabeo

Alle 7 e 34 del 28 novembre 1942, sulla forca del carcere maltese di Corradino, moriva Carmelo Borg Pisani, un giovane artista che sognava la liberazione della sua isola dal dominio britannico. Spinto da generoso entusiasmo lasciò pennello e tavolozza per imbracciare il fucile. Arruolatosi come soldato semplice nell’esercito di quell’Italia da lui ritenuta la vera patria, fu protagonista di una sfortunata missione segreta conclusasi con l’arresto e un processo per alto tradimento. Entrò così nella schiera delle Medaglie d’Oro al Valor Militare. Figura controversa, protagonista di una vicenda tragica, fu considerato in Italia un eroe irredentista e a Malta, anche se non da tutti, un traditore. È il caso più noto di missione in territorio nemico, la storia di un uomo che, riconoscendosi in un ideale, fu facile vittima dell’incompetenza, della superficialità e della cattiva coscienza di chi, più o meno consapevolmente, lo mandò incontro alla morte. Affrontò con coraggio il sacrificio supremo come Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa e Nazario Sauro.

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LE FAISCEAU, LA CROIX GAMMÉE ET LE CROISSANT

Anno: 2006
Casa editrice:
Akribeia

Peu de chercheurs ont abordé l’histoire des relations qui, après la Première Guerre mondiale, s’établirent entre les gouvernements italiens et allemands et quelques partisans des mouvements de libération arabes et islamiques du tiers-monde, en particulier ceux d’Afrique septentrionale et du Moyen-Orient. Dans le présent ouvrage, fruit d’un long travail d’enquête dans les archives de nombreux pays, se dessine un tableau inédit des étapes de la politique de collaboration qui se développa entre les puissances de l’Axe et les principaux interlocuteurs du nationalisme arabe, notamment en Palestine et en Irak.

Dans une première partie, « Le fascisme, le national-socialisme et la décolonisation », est analysée la période qui s’écoule du milieu des années trente à 1945. L’auteur y met en évidence les affinités idéologiques et les contradictions de la politique de Mussolini et d’Hitler à l’égard des Arabes et de l’Islam, ralliés à Rome et Berlin dans le but d’obtenir des aides et des appuis dans la lutte contre les puissances coloniales qu’étaient la France et la Grande-Bretagne.

Dans la seconde partie, intitulée « Le Glaive et l’Islam », il est question de la courte et symbolique expérience des détachements arabes dans l’armée italienne et surtout de l’histoire des unités militaires que les Allemands constituèrent avec des volontaires musulmans.

– L’Italie fasciste et le monde arabe
– L’Allemagne nationale-socialiste et l’Islam
– L’Europe, base du djihad
– Le Mufti et el-Gaylani
– La Phalange africaine
– La guerre des ondes
– L’Europe musulmane combat avec l’Axe

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I CETNICI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Anno: 2006
Casa editrice:
Editrice Goriziana

Durante la seconda guerra mondiale, in Jugoslavia, sia le forze dell’Asse, in particolare gli italiani, sia quelle alleate puntarono, per ragioni differenti e ciascuno con finalità proprie, sulla carta dei cetnici. Pertanto questi nazionalisti serbo-ortodossi furono al contempo un movimento di resistenza e di collaborazione con gli occupanti che operò in diversi modi, dovuti a una pluralità di situazioni e di fattori politici, militari e strategici, per conseguire l’obiettivo finale della conquista del potere e della restaurazione della monarchia quando tedeschi e italiani si fossero ritirati.
Dalla storia dei cetnici e della loro collaborazione – alcuni inquadrati nelle Milizie Volontarie Anticomuniste, altri in formazioni autonome – con gli italiani fino al 1943, e con i tedeschi nel biennio successivo, emergono anche episodi poco conosciuti quali l’ambiguo atteggiamento di Stalin nei confronti del movimento di Mihajlovic che, oltre ad essere monarchico e a combattere il trotzkista Tito, era anche panlsavista e filorusso, o i tentativi da parte dei partigiani comunisti di pervenire ad accordi con i tedeschi per distruggere gli odiati nazionalisti serbi e per respingere un eventuale e temuto sbarco sulle coste adriatiche della Jugoslavia da parte degli alleati, di cui i cetnici erano ritenuti la quinta colonna.
Questa pagina poco nota di storia, italiana e jugoslava, ricostruita soprattutto con materiale documentario degli archivi dello Stato Maggiore dell’esercito e del ministero degli Esteri, oltre a farci conoscere il percorso di un movimento che nasce per combattere i croati e gli occupanti italo-tedeschi e poi finisce per collaborare con entrambi e pagare pesantemente il prezzo dell’alleanza con la parte sconfitta, aiuta a comprendere le tante e profonde ragioni per cui i popoli della Jugoslavia si sono massacrati, senza esclusione di colpi, non solo nel secondo conflitto mondiale, che in quel Paese fu la guerra di tutti contro tutti, ma anche in tempi a noi più vicini.

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MUSSOLINI E LA RESISTENZA PALESTINESE

Anno: 2005
Casa editrice:
Mursia

«Settant’anni fa, nel più assoluto segreto, l’Italia fascista si adoperava validamente nel tentativo di dare una patria agli arabi della Palestina. Non si trattava soltanto di un appoggio politico, ma di un autentico sostegno materiale».

Angelo Del Boca

Tra il 10 settembre 1936 e il 15 giugno 1938 l’Italia fascista versò al Gran Mufti di Gerusalemme, che guidava la rivolta del popolo palestinese contro le forze militari della Gran Bretagna e contro l’immigrazione ebraica, circa 138.000 sterline, una somma di tutto riguardo per quei tempi. Questo contributo finanziario fu deciso dal Duce all’indomani della guerra d’Etiopia, non solo «in ragione della posizione assunta dall’Italia nei confronti del nazionalismo arabo, e per dar fastidio agli Inglesi», ma anche in omaggio alle posizioni anticolonialiste del Mussolini socialista rivoluzionario e del primo fascismo. Oltre al denaro il ministero degli Esteri decise di inviare ai mujâhidîn palestinesi un consistente carico di armi e munizioni, in principio destinato al Negus ma acquistato in Belgio tramite il SIM. Questo materiale, depositato per quasi due anni a Taranto, sarebbe dovuto giungere, tramite intermediari sauditi, ai palestinesi impegnati nella prima grande intifâda per abbattere il regno hascemita di Transgiordania, porre fine al protettorato britannico, bloccare l’arrivo di altri ebrei e il progetto sionista in Terrasanta. Per l’Italia di Mussolini fu anche il tentativo di non farsi scavalcare nella solidarietà agli arabi dalla Germania di Hitler. Un’altra pagina della politica araba del fascismo, finora volutamente ignorata, ricostruita sulla base di documenti provenienti dagli archivi del Ministero degli Esteri e dello Stato Maggiore dell’Esercito.

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LES ARABES DE FRANCE SOUS LE DRAPEAU DU REICH

Anno: 2005
Casa editrice:
Ars Magna

Si l’on excepte la Tunisie, jusqu’en mai 1943, la seule communauté arabe avec laquelle le Reich fut en contact immédiat fut celle de France. Les relations entre les Allemands et les nombreux maghrébins résidant dans l’Hexagone furent sereines et cela permit le développement d’une collaboration politique et militaire.

A partir de 1941, les Allemands publièrent une revue illustrée en français et en arabe, al-Dunya-al-Jadida, par l’intermédiaire de laquelle ils diffusèrent leur programme politique. Une autre revue, Lisan al-‘Asr, s’adressa à la dizaine de milliers de soldats maghrébins internés dans les camps de prisonniers. En plus de cela, à Paris, le bureau chargé de la propagande arabe, le Werbestelle für Araber, s’occupa de la publication de plusieurs opuscules de propagande.

De nombreux arabes étaient affiliés aux partis fascistes français et ils étaient disposés, de ce fait, à collaborer à la cause de l’Axe et de l’Allemagne. Pour d’autres, membres des mouvements indépendantistes du Maghreb, le Troisième Reich apparaissait comme le garant de la future liberté arabe hors du joug colonial français.

Cette brochure raconte l’histoire de ces militants maghrébins, de leurs initiatives courageuses et de leurs espoirs déçus.

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UNA VITA PER LA PALESTINA

Anno: 2003
Casa editrice:
Mursia

Il 4 luglio 1974 con la morte a Beirut di Muhammad Amîn ‘Âlî al-Husaynî, Gran Mufti di Gerusalemme, finiva un lungo capitolo nella storia della Palestina contemporanea. Esponente di primo piano del mondo arabo e di quello islamico, fondatore del movimento nazionale palestinese, la sua storia s’identificò, in gran parte, con quella della sua patria e del suo popolo, di cui fu il leader incontrastato, seppur discusso, per più di trent’anni. Unità e indipendenza del mondo arabo, solidarietà islamica e lotta di liberazione palestinese furono gli obiettivi per cui lottò fino agli anni Cinquanta e anche dopo, schierandosi di volta in volta al fianco di chi – da Mussolini ad Hitler, da ‘Abd al-Nâser a re Husayn di Giordania – sembrò poter contribuire al suo progetto, secondo una concezione “machiavellica” della politica che lo indusse a stringere contemporaneamente la mano al leader dei Black Muslims, Malcom X, e al Primo ministro della Cina comunista Chou En-Lai. Non c’è quasi nulla nella dottrina dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e nella carta del Consiglio Nazionale Palestinese che non sia stato già concepito da lui o da lui, indirettamente, ispirato. La sua vita, più di quella di qualsiasi altro leader palestinese, ‘Arafât a parte, incarnò l’essenza originaria del movimento nazionale palestinese e della sua lunga lotta per l’indipendenza.

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IL FASCIO, LA SVASTICA E LA MEZZALUNA

Anno: 2002
Casa editrice:
Mursia

«Sull’incontro delle potenze dell’Asse con i movimenti di resistenza africani e asiatici oggi possiamo finalmente disporre di una precisa ricostruzione, che colma gravi lacune e ci offre non poche sorprese».

Angelo Del Boca

Pochi studiosi hanno affrontato la storia dei rapporti che, dopo la Prima Guerra Mondiale, si instaurarono fra i governi di Italia e Germania e alcuni esponenti dei movimenti di liberazione arabi e islamici del Terzo Mondo, in particolare quelli dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente. In questo libro, dopo un lungo lavoro di ricerca negli archivi di numerosi Paesi, si delinea un quadro inedito delle tappe della politica di collaborazione che si sviluppò tra le potenze dell’Asse e i principali interlocutori del nazionalismo arabo con particolare attenzione alla Palestina e all’Iraq.
Nella prima parte del volume, «Il fascismo, il nazionalsocialismo e la decolonizzazione», viene analizzato il periodo tra la metà degli anni Trenta e il 1945, mettendo in risalto affinità ideologiche e contraddizioni della politica di Mussolini e Hitler nei confronti degli arabi e dell’Islâm, che si schierarono a fianco di Roma e Berlino con l’obiettivo di avere aiuti e appoggi nella lotta contro le potenze coloniali di Francia e Gran Bretagna. Nella seconda parte, intitolata «La spada dell’Islâm», è presentato in dettaglio la storia delle unità militari che i tedeschi costituirono con volontari musulmani e la breve e simbolica esperienza dei reparti arabi nell’esercito italiano.

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IL REICH E L’AFGHANISTAN

Anno: 2002
Casa editrice:
Edizioni all’insegna del Veltro

“Nessuno si può considerare padrone dell’India se non ha in mano Kabul”

Gran Moghul Akbar (XVI secolo)

Gli amanti delle vicende di politica internazionale che videro coinvolte nel Vicino e Medio Oriente arabo-islamico l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista, dall’uscita di questo testoricaveranno la convinzione che uno studioso come Stefano Fabei, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Sì, perché quello di Fabei non è un nome nuovo per chi si diletta a scavare negli interstizi della Storia: sempre per i «Quaderni del Veltro» sono già usciti La politica maghrebina del Terzo Reich e Guerra santa nel Golfo, una ricostruzione della fallita insurrezione nazionale irachena del 1941 contro gli inglesi. Si tratta, come in questo caso, di avvenimenti che solo una storiografia volutamente distratta ha relegato al limite della curiosità, ma che invece, grazie proprio all’indole curiosa dell’Autore, una volta tratte dall’oblio si rivelano estremamente interessanti ed istruttive. Ne spieghiamo subito il motivo. L’interesse, se non addirittura la simpatia, dimostrato verso l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista dai governanti degli Stati musulmani indipendenti, dai leader nazionalisti emersi nel seno di «colonie», «mandati», «protettorati», e l’entusiasmo sincero di ampi settori dell’opinione pubblica arabo-musulmana per quei due regimi, è un fatto che ci parla delle strategie messe in atto da popolazioni emergenti per svincolarsi da una tutela che spesso assumeva i contorni dello sfruttamento («democratico»…) vero e proprio. Ad alcuni, sentire di tutto questo non piace, perciò tentano di travisarlo per fini di bassa propaganda filo-americana e filo-sionista: di qui una dietrologia che ancora oggi affibbia assurde accuse di «antisemitismo» ai palestinesi[1], l’attribuzione di un’improbabile dignità scientifica all’inedita categoria del “fascismo verde”[2], la costruzione – sfruttando l’oliato meccanismo dei riflessi condizionati – di esilaranti complotti che vedrebbero protagonisti Hitler e il Gran Mufti al-Husaynî, passando per Saddam Hussein, Khomeyni, Gheddafi, fino a giungere al novello “Veglio della montagna” Osama Bin Laden[3]. Il tutto naturalmente condito dall’insinuazione che i popoli di fede islamica, proprio in virtù delle vicende studiate dallo stesso Fabei, abbiano – ogniqualvolta che decidono di prendere in mano il proprio destino – un chissà che di «nazista»… L’Afghanistan degli anni tra le due guerre mondiali è ancora lo «Stato cuscinetto» la cui esistenza si giustificava in ragione della competizione anglo-russa esplosa nell’Ottocento. Con due fondamentali differenze però. La prima è che in seguito al Trattato di Rawalpindi dell’8 agosto 1919 stipulato al termine della breve terza guerra anglo-afghana[4], l’Emirato di Afghanistan – mai ridotto a colonia – diveniva a tutti gli effetti uno Stato indipendente, differenziandosi fondamentalmente da altri Stati musulmani coevi, i quali potevano definirsi tali solo sulla carta (tipico esempio, l’Iraq). L’emiro riformatore Amânullâh, conscio che un Paese arretrato in tutto non avrebbe mai potuto svincolarsi da quel destino imposto (quello di «Stato cuscinetto», appunto), aveva rinunciato d’acchito alla sovvenzione interessatamente elargita dagli inglesi ai suoi predecessori, aveva ripreso le redini della politica estera ed aveva aperto il Paese a tutti coloro che fossero in grado di contribuire alla realizzazione del suo ambizioso programma. Già dagli anni Venti giunsero così a Kabul esperti italiani[5] e tedeschi[6], ma l’emiro, per bilanciare le diverse influenze, intessé buoni rapporti con tutti, compresi i russi  [7] invisi agli inglesi, i quali pretendevano di mantenere una posizione di privilegio. Il sogno di Amânullâh era in effetti quello di “fare dell’Afghanistan la terra miracolosa cui avrebbe guardato in breve, come a segnacolo di libertà, tutta l’India dal Kashmir a Delhi” [8], e malgrado il suo tentativo fosse abortito agli inizi del ’29 per degli eccessi nei modi e nei tempi con cui era stato condotto, il suo lascito morale non venne dimenticato, ed anche i suoi successori – certo con maggior cautela – si adoperarono per far uscire il Paese dal suo «medioevo».

Il secondo fattore che interviene negli anni Trenta a modificare il significato e la portata della presenza dello «Stato cuscinetto» è l’ascesa della nuova Germania hitleriana, in cerca di nuovi mercati per una produzione industriale in prodigioso aumento. Gli inglesi, che individuavano nell’Afghanistan la culla del movimento insurrezionale antibritannico nel cuore dell’Impero, l’India, abitato da sessanta-settanta milioni di musulmani, non vedevano di buon occhio l’espandersi dell’influenza tedesca presso il reggente Hâshim (1933-1946), il quale tentò per così dire una sorta di “terza via” diplomatico-commerciale in grado di affrancare l’emirato dal consueto pendolare tra l’orso russo e il leone britannico.

Gli inglesi dunque temettero che un Afghanistan ammodernato e rafforzato grazie all’apporto tecnico tedesco e italiano (ed invaso in misura crescente dai prodotti giapponesi) finisse per trasformarsi in una sorta di “Piemonte dell’India”, per riprendere un’espressione di Gandhi. E ne avevano ben donde, poiché in un Paese che intendeva divincolarsi dalla dipendenza economica dall’India britannica, la Germania “si conquisterà nel giro di pochi anni una notevole influenza[…]. I tedeschi si vedranno ripagati con la stima e il rispetto per il loro prezioso contributo in campo tecnico e ben presto tutto ciò che giungerà dalla Germania godrà di indiscusso prestigio e sarà osannato a non finire: l’efficienza tedesca diverrà in Afghanistan un vero e proprio mito”[9].

Per alcuni esponenti nazionalsocialisti poi, l’interesse per l’Afghanistan traeva origine dalla convinzione di un’affinità razziale con genti migrate agli inizi del II millennio a. C. dal nord verso il subcontinente indiano e l’altopiano iranico. Migrazioni di cui resta traccia anche nei Rig-Veda, che contengono toponimi afghani quali Kubha (Kabul), Savasta (Swat), Rasa (Kunar), Balhika (Balkh) eccetera [10]. Queste tribù ariane si stabilirono anche nelle terre dell’odierno Afghanistan, e una di queste erano i pashta, il gruppo etnico afghano più consistente oggi noto con il termine pashtun [11]. Gli afghani si lasciarono ammaliare volentieri dalle argomentazioni tedesche sulla loro discendenza dalla stirpe ariana, in quanto abitanti dell’antica Aria (Herat) e dell’Ariana citata da Strabone, ed accantonarono l’altra leggenda sulle loro origini, che li vede discendere da una tribù di ebrei giunta nell’Hazarajat dalla Babilonia retta da Nabucodonosor (VI sec. a. C.).

Dagli anni Trenta non pare che l’idea della filiazione ebraica dei pashtun abbia più visto risollevarsi le proprie quotazioni, se anche i principali studiosi afghani contemporanei rigettano quella che con tutta evidenza appare una leggenda inventata a suo tempo di sana pianta per conferire una patente di nobiltà a tribù convertite di fresco all’Islam[12].

L’interesse tedesco per l’Afghanistan derivava inoltre da considerazioni di carattere geopolitico. A differenza di russi e inglesi, che avevano imposto all’Afghanistan un’esistenza da «vuoto geopolitico» (difatti non verrà occupato come l’Iran), per la Germania esso rappresentava una base da cui muovere per azioni di disturbo della potenza inglese in India, dove molti nazionalisti sia musulmani che indù erano pronti a schierarsi con l’Asse per la liberazione della loro Patria.

Di grande ausilio per azioni di quel tipo era la politica di rigida neutralità del Paese fissata a chiare lettere dal sovrano Nadîr Shah nel suo discorso d’inaugurazione del parlamento afghano, il 6 luglio 1931, e mantenuta con dignità per circa un decennio: “L’Afghanistan osservi la neutralità, e nei riguardi degli Stati vicini ed amici esso mantenga relazioni basate su metodi tali che non siano contrari agli interessi dell’Afghanistan, e dia nello stesso tempo pratiche garanzie a questi vicini di mantenere nei loro riguardi un equilibrio perfetto…”[13].

Una volontà di equilibrio mal digerita dagli inglesi, che corsero ai ripari patrocinando il patto di Sa‘dâbâd (luglio 1937), con cui si costituiva un cordone sanitario attorno all’Unione Sovietica: Turchia, Iraq, Iran e Afghanistan.

Strano destino quello delle terre che compongono l’Afghanistan. Storicamente terre di passaggio, crocevia di culture (si pensi all’arte del Gandhara), di mercanti (la Via della seta), di eserciti che di lì sciamavano in India. E’ proprio quest’ultimo fattore quello che ad un potere giunto nell’India dal mare fece percepire quelle terre come un pericolo da irreggimentare entro confini meticolosi, altrimenti difficilmente spiegabili. La talassocrazia britannica non aveva difatti più bisogno delle antiche vie di comunicazione, anzi fece di tutto per farle andare in rovina.

Strano destino anche quello della Geopolitica. Una scienza caratterizzata da un approccio organico che è l’esatto contrario di quel determinismo in cui incappò il  suo estimatore Adolf Hitler: l’aspirazione ad un accordo con l’Inghilterra e l’attacco alla Russia (deprecato da Karl Haushofer) non vanno disgiunti da un determinismo biologico contraddittorio (abbiamo detto dell’insistenza tedesca sulle «origini» dei pashtun) e cattivo consigliere.

Abû Fâdil aveva scritto nel 1560: “Quello degli Stati europei che riuscirà a diventare padrone del territorio afgano, affermerà il proprio incontrastato dominio su tutta quella parte del globo che dal Caspio e dal Golfo Persico va sino all’Oceano Indiano e al Mar Giallo”[14].

I russi ci hanno provato (o sono stati indotti a provarci…) ed è stato l’inizio del loro tracollo: l’accerchiamento operato dagli angloamericani attorno all’Heartland siberiano centroasiatico sembra procedere più spedito che mai. A meno che gli Usa non rimangano invischiati in un nuovo Vietnam e che la loro pretesa di dominio del continente per eccellenza camuffata da «guerra al terrorismo» si risolva, come già accaduto agli inglesi nella prima guerra anglo-afghana, in una disastrosa fatal retreat.

(Dall’introduzione di Enrico Galoppini a Il Reich e l’Afghanistan)


[1] Cfr. Alberto Rosselli, La strana alleanza tra Hitler e la Lega arabo-palestinese, «Storia in Network», n. 65, marzo 2002 (http://www.storiain.net).
[2] Le Totalitarisme islamiste à l’assaut des démocraties di Alexandre del Valle, in uscita nel settembre 2002, sarà il compendio di una teoria che va facendo proseliti tra tutti gli ‘occidentalisti’ ad oltranza.
[3] Cfr. Marco Gregoretti, I signori degli anelli, «GQ», n. 27, dicembre 2001, pp. 134-141.
[4] I termini delle relazioni diplomatiche con il Regno Unito verranno stabiliti con il Trattato di Kabul del 22 novembre 1921 (ratificato il 6 febbraio 1922).
[5] Nel dicembre 1923 arrivò la missione tecnica guidata da Gastone Tanzi, seguita l’anno seguente da quella medica. Cfr. Gastone Tanzi, Viaggio in Afganistan, Edizioni “Maia”, Milano 1929.
[6] Una Società commerciale germano-afghana esisteva dal 1921, mentre dal 1922 risiedeva nella capitale l’ing. Walter Harten, consigliere dell’emiro per i lavori pubblici, che prevedevano strade, ponti, ferrovie, lavori per l’irrigazione, bonifiche e la costruzione della nuova capitale di rappresentanza Dâr al-Amân.
[7] La collaborazione russa si esplicò soprattutto in campo aeronautico.
[8] Camillo Maria Pecorella, Fardà. Tavolozza di Afghanistan sotto l’emiro Amanullah, Casa Editrice Remo Sandron, Palermo 1930, p. 237.
[9] Antonio Barletti, Afghanistan prima e dopo, Vallecchi, Firenze 1981, pp. 133-134.
[10] Cfr. ibidem, p. 24.
[11] Indicati in alcune zone come pakhtun (i pathan degli inglesi). Il termine «afghano» si applica invece al cittadino dello Stato unitario sorto nell’Ottocento attorno a Kabul, che può appartenere sia all’etnia pashtun che a quella tagica, uzbeca, nuristana, hazara, turkmena eccetera. Dunque i pashtun sono solamente uno specifico gruppo etnico maggioritario in Afghanistan, insediato anche nell’attuale Pakistan (Peshawar). Di qui le ricorrenti rivendicazioni per la creazione di un «Pashtunistan» comprendente parti degli Stati afghano e pakistano. Cfr. Giorgio Vercellin, Iran e Afghanistan, Editori Riuniti, Roma 1986, pp. 22-23.
[12] Cfr. Ustûra hawla “yahûdiyya” al-bâshtûn![Una leggenda sull’“ebraicità” dei pashtun!], “as-Safîr”, 4 febbraio 2002.

[13] Cit. in Maria Vismara, Ripercussioni della guerra nel Medio Oriente. L’Afganistan, “Le vie del mondo”, a. VIII, aprile 1940, p. 1012.
[14] Cit. in G. Tanzi, op. cit., p. 255.

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GUERRA E PROLETARIATO

Anno: 1996
Casa editrice:
Barbarossa

Questo libro costituisce la più ampia e documentata ricerca sul complesso e articolato dibattito e sulla molteplicità delle motivazioni che portarono i sindacalisti rivoluzionari a farsi tra i più agguerriti fautori dell’interventismo. La sua importanza consiste nel proporre in maniera analitica e depurata da ogni intenzione manipolatoria, una serie di passaggi teorico-politici attraverso i quali giunge a maturazione una proposta originale che – pur senza mai definirsi in maniera monolitica e lasciando invece ampi margini alla pluralità di accenti esistenti al proprio interno – si è caratterizzata per l’ostinata volontà di ricercare la possibilità di realizzare una sintesi di socialismo e nazionalismo che non si qualificasse nel senso di una mera ibridazione, dal momento che entrambi i termini della nuova sintesi non devono essere recepiti nelle loro forme storiche tradizionali. Non si voleva soltanto superare l’espressione della loro parzialità, cioè la loro strutturale incapacità, in quanto solo socialismo o solo nazionalismo, a rappresentare quel progetto di emancipazione non solo economica e politica ma anche culturale e spirituale delle classi lavoratrici, ma si voleva anche sostenere che entrambi i termini andavano rivisitati e riattraversati criticamente alla luce dei loro esiti fallimentari nelle nuove circostanze storiche enfatizzate dalla guerra mondiale alle porte…

(dall’Introduzione di Enrico Galmozzi)

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GUERRA SANTA NEL GOLFO

Anno: 1990
Casa editrice:
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Nell’Aprile del 1941, in Iraq, un gruppo di militari e di nazionalisti, denominato «Quadrato d’oro», metteva in atto un tentativo di riscossa antibritannica. Insieme ai membri del «Quadrato d’oro» e a Hâjj Amîn-al Husaynî, Gran Mufti di Gerusalemme ed eroe della lotta di liberazione palestinese, ne era ideatore e protagonista Rashîd ‘Alî el-Gaylânî che, sostenuto dalla totalità della popolazione, al fine di liberare, una volta per tutte, il suo paese dal colonialismo britannico, chiese in suo aiuto l’intervento delle potenze dell’Asse.
Sconfitto ma non arresosi in una guerra impostagli dagli inglesi, el-Gaylânî raggiunse l’Europa e da qui, insieme ad altri capi indipendentisti dei Terzo Mondo, lottò al fianco dell’Italia, della Germania e del Giappone con l’obiettivo di liberare il suo paese e le altre nazioni arabe ed islamiche dal colonialismo.

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LA POLITICA MAGHREBINA DEL TERZO REICH

Anno: 1988
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«Gli Arabi e i Marocchini mettono il mio nome nelle loro preghiere», diceva compiaciuto Hitler il 13 gennaio 1942 conversando con i suoi ospiti. In un’analoga occasione, il 1° agosto 1942, dichiarava che l’epoca d’oro della Spagna, il momento di massima civiltà della Spagna era stato quello del dominio arabo-islamico. Non meraviglia pertanto come nella seconda metà degli anni Trenta e durante l’ultimo conflitto mondiale la Germania sviluppasse verso i Paesi del Maghreb una campagna propagandistica che, pur mirando a fini propri, contribuì, comunque, alla crescita di un nazionalismo arabo che avrebbe dato i suoi frutti nel secondo dopoguerra con il conseguimento dell’indipendenza.

«Volutamente ignorata dalla storiografia ufficiale», afferma l’Autore di questo studio, la storia dei Musulmani che militarono a fianco dell’Asse è ancora tutta da scrivere. Le note bibliografiche di Fabei riportano infatti, relativamente a tale argomento, solo un paio di titoli, corrispondenti a due scritti piuttosto modesti. In realtà, se su quella che fu la figura più prestigiosa ed emblematica della collaborazione accordata dall’Islam al Terzo Reich, cioè il Gran Mufti di Gerusalemme Hâjj Amîn ‘Alî al-Husaynî, esiste un’abbondante letteratura, non si può dire lo stesso per quanto concerne la bibliografia sul tema più generale della partecipazione politica e militare di personalità, gruppi e popoli musulmani all’impresa dell’Asse.
La pubblicazione di questo saggio sulla politica maghrebina della Germania nazionalsocialista e sulla risposta che essa ricevette da parte delle popolazioni del Marocco, dell’Algeria e della Tunisia costituisce dunque un importante contributo alla ricostruzione di un capitolo alquanto trascurato della storia contemporanea: trascurato non solo dagli storici dei movimenti filonazisti, ma anche, «lacuna ancor più grave, dagli storici dei colonialismo e della decolonizzazione. Giacché (…) il fenomeno filonazista di certi paesi e gruppi politici arabi fu anzitutto un corollario della resistenza al colonialismo». Auspichiamo, comunque, che l’apporto recato da Stefano Fabei all’indagine e all’approfondimento del tema in questione non si esaurisca con il presente «quaderno»: sappiamo che egli ha da tempo in cantiere una ricerca sul tentativo di riscossa antibritannica messo in atto in Irâq da quel «Blocco d’oro» che contava sull’appoggio della Germania, e speriamo di poterlo dare alle stampe in un prossimo futuro.

(Nota introduttiva dell’Editore)

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