IL FASCIO, LA SVASTICA E LA MEZZALUNA


PREFAZIONE

Quando Stefano Fabei mi chiese una breve introduzione al suo volume Il fascio, la svastica e la mezzaluna, la mia prima reazione fu quella di rispondere negativamente, seppure con il maggior garbo possibile. E non soltanto perché l’editore mi accordava appena dieci giorni per leggere il libro e dotarlo di una prefazione ma perché stavo ultimando di comporre un’antologia di scritti sull’Africa, perché dovevo mandare in tipografia il numero 32 della mia rivista storica, «Studi Piacentini», ed infine perché sono costantemente martellato dalle richieste e cerco di difendermi.

Ma discorrendo al telefono con l’autore apprendevo alcuni particolari sulla genesi del libro che poco a poco indebolivano le mie difese sino a costringermi alla capitolazione. Per cominciare, venivo a sapere che all’origine dell’interesse di Stefano Fabei per le ricerche sul mondo arabo ed africano c’era la lettura di un libro, I figlio del sole Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, che avevo scritto con Mario Giovana nel lontano 1965. In modo particolare aveva destato il suo interesse il capitolo che avevo dedicato all’Africa, alle tentazioni fasciste di Jamâl ‘Abd al-Nâser e di Anwar al-Sadât, alla malaugurata scelta del partito unico, che l’etichetta socialista non rendeva più accettabile.

Stefano Fabei aveva vent’anni quando fece questa lettura (oggi ne ha quarantadue) ed era alla vigilia di laurearsi all’Università di Perugia. Da allora il suo interesse per i per sonaggi del mondo arabo, in modo particolare per quelli che hanno operato fra gli anni ’10 e gli anni ’40 del ‘900, non doveva più esaurirsi. Nel 1980 presentava al professor Salvatore Bono una tesina sul conflitto anglo-irakeno del 1941. In seguito lo affascinava la figura del Sayd Amîn al-Husaynî, il Gran Mufti di Gerusalemme, e iniziava a scrivere un’accurata biografia, oggi quasi completata. Nel 1993 inviava a «Studi Piacentini» un saggio dal titolo Fascismi e decolonizzazione, che suscitava il mio interesse e che avrei pubblicato sul numero 16/1994.

Essendo entrato nel gruppo dei miei collaboratori, ebbi modo di conoscerlo meglio, di apprendere che viveva e Passignano sul Trasimeno e che ogni giorno si recava in auto a Perugia, dove insegnava materie letterarie all’Istituto Tecnico per le Attività Sociali «Giordano Bruno». A Fabei piaceva insegnare, ma era anche facile intuire che la ricerca storica era in cima ai suoi interessi. Nei ritagli di tempo si precipitava a Roma a scavare negli archivi della Farnesina, dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, nei fondi dell’Archivio Centrale dello Stato. E spesso, gentilmente, mi faceva partecipe delle sue ricerche e delle sue scoperte.

Le sue indagini avevano due precisi obiettivi. Il primo era quello di identificare quei soldati arabi, indiani ed italiani provenienti dall’Egitto, dalla Tunisia e dal Medio Oriente che avevano fatto parte, nel corso della seconda guerra mondiale, di una sorta di Legione Straniera italiana. I primi frutti di questa ricerca Fabei li pubblicava, con il titolo Gli arabi nell’esercito italiano, sul numero 30/2001 di «Studi Piacentini». Il secondo obiettivo, più ambizioso, riguardava i rapporti che dalla fine del primo conflitto mondiale e sino al 1945 si instaurarono tra il fascismo e il nazionalsocialismo e alcuni movimenti di liberazione del Terzo Mondo, in particolar modo africani ed asiatici.

La storia di questi rapporti, che oggi siamo lieti di presentare, costituisce l’argomento di questo volume. Ci sono voluti vent’anni a Fabei per completare quest’opera, che non ha precedenti in Italia, salvo per alcune ricerche di Renzo De Felice. Vent’anni spesi bene, perché sull’incontro delle potenze dell’Asse con i movimenti di resistenza africa ni ed asiatici oggi possiamo finalmente disporre di una precisa ricostruzione, che colma gravi lacune e ci offre non poche sorprese.

Apprendiamo, innanzitutto, che Adolf Hitler godeva tra gli arabi di un’ammirazione sconfinata. Lo chiamavano Abû ‘Alî ed erano convinti che si fosse convertito all’Islâm. Era tale la venerazione per il capo del Terzo Reich da suggerire ad un anonimo poeta dell’Oriente arabo questi versi:

Non più monsieur, né mister

tutti fuori, sgombrate il campo,

in cielo Allâh, sulla Terra Hitler.

L’ammirazione per Hitler e la dottrina del nazismo crebbero quando la Germania entrò in guerra e nei primi tre anni del conflitto sembrò avere la meglio ed essere in grado di dare al mondo un nuovo assetto. A cominciare dal Gran Mufti di Gerusalemme, i leader del mondo arabo ed indiano erano persuasi che Hitler avrebbe aiutato i loro paesi a raggiungere l’agognata indipendenza. Non sorprende, quindi, che molti popoli di religione musulmana si siano schierati con la Germania nazista offrendo un altissimo contributo di sangue. Si calcola che fra il 1941 e il 1945 fecero parte delle unità militari del Reich almeno 13.000 siriani, palestinesi, iracheni, egiziani e maghrebini, 60.000 musulmani bosniaci, croati, montenegrini ed albanesi; 350.000 turchestani, georgiani, armeni, tartari, ceceni, azeri. Soltanto i caucasici persero in combattimento 117.000 uomini, il che significa che le truppe musulmane furono sempre usate in prima linea.

Un’unità che si distinse per la sua efficienza (e ferocia) fu la 162ª divisione «Turkestan», prima al comando del generale Ritter von Niedermayer, poi del generale Ralph von Heygendorff. Dopo essere stata impiegata con successo sul fronte orientale, la 162ª composta per il 50 per cento da legionari caucasici o turcotatari, fu inviata in Italia soprattutto per reprimere le forze della Resistenza. Il 23 novembre 1944 le truppe tedesco-mongole (così erano chiamate dagli italiani) davano inizio alla loro offensiva contro le divisioni partigiane del Piacentino e, in un secondo tempo, del Parmense.

Per tre mesi i «mongoli» non diedero tregua. Il loro passaggio nelle valli emiliane lasciò segni terrificanti, quasi fossero transitate le orde selvagge di Gengis Khân. Incendi di cascinali, furti, saccheggi, stupri, violenze di ogni sorta erano una consuetudine quotidiana.

Mussolini non ha goduto della stessa fama di Hitler, salvo forse sul finire del 1942 quando le truppe italo-tedesche giunsero ad El Alamein, a 60 chilometri da Alessandria d’Egitto, e tutto faceva pensare che gli eserciti dell’Asse avrebbero trionfato in Africa settentrionale. A quel tempo gli arabi chiamavano Mussolini Mûssa-Nili, il Mosè del Nilo, e speravano che, dopo aver occupato l’Egitto, avrebbe concesso l’indipendenza al paese. Ma lo scontro durissimo ed infausto di El Alamein segnava la fine del sogno egiziano. Dopo la disfatta, cominciava per gli italo-tedeschi, al comando di Erwin Rommel, una ritirata di migliaia di chilometri che si sarebbe conclusa, con la resa, in Tunisia.

Il minor prestigio goduto da Mussolini fra gli arabi, nonostante avesse brandito a Tripoli la spada dell’Islâm, era dovuto soprattutto al fatto che a differenza della Germania che era stata privata delle sue colonie dopo la sconfitta del 1918, l ‘Italia aveva rivelato, con la riconquista della Libia e del Nord della Somalia e con l’occupazione dell’Etiopia, un forte e brutale espansionismo che mal si conciliava con le promesse di accordare l’indipendenza a molti paesi arabi. In effetti l’Italia fascista vedeva nel Mediterraneo l’antico Mare Nostrum e lo considerava uno «spazio vitale» italiano, così come i tedeschi guardavano all’Oriente europeo come al loro «lebensraum».

Anche se Hitler aveva concesso all’Italia fascista la precedenza nella futura operazione di riassetto dell’area araba, non condivideva però la politica di Mussolini nei confronti dei paesi musulmani. «L’alleato italiano – dichiarava il 17 febbraio 1945 – ci ha intralciato quasi dappertutto. Ci ha impedito di sviluppare una politica rivoluzionaria nell’Africa del Nord… Il Duce aveva una grande politica da fare nei confronti dell’Islâm. È fallita, come tante altre cose che noi abbiamo fallito in nome della fedeltà all’alleato italiano.. In effetti la politica di Mussolini non fu mai né chiara né lineare. Era talmente confusa ed ambigua da sollevare dubbi e perplessità, non passioni o adesioni. È significativo che pochissimi arabi versarono il loro sangue combattendo a fianco degli italiani. Le due divisioni libiche che il maresciallo Graziani aveva messo in campo durante la sua offensiva del 1940 in Egitto fornirono una pessima prova nel corso della controffensiva del generale inglese Archibald Percival Wavell. Nel 1942 si tentò di costituire in Italia una «Legione araba», secondo i desideri del Gran Mufti di Gerusalemme. Ma essa non concluse neppure l’addestramento e non fu mai impiegata in combattimento. Gli arabi dell’Africa del Nord avevano la memoria lunga. Anche se Mussolini aveva brandito la spada dell’Islâm e si era proclamato suo protettore, nessuno, da Damasco a Casablanca riusciva a dimenticare che lo stesso uomo aveva fatto impiccare, nel campo di concentramento di Soluch, dinanzi a 20.000 atterriti spettatori, Omar al-Mukhtâr, l’anziano leader della resistenza in Cirenaica.

Oltre a fornire una montagna di informazioni inedite, che in parte spiegano ciò che accade oggi nel Medio Oriente, il volume di Stefano Fabei è di gradevolissima lettura, il che non guasta.

Nel testo originale del libro le note erano più numerose e più corpose, ma per ragioni di spazio sono state in parte sacrificate. Ciononostante l’opera di Fabei conserva intatto il suo valore scientifico e può essere letta sia da specialisti della materia che dal pubblico più vasto degli amatori dei libri di storia.

ANGELO DEL BOCA

INTRODUZIONE

I rapporti che già dalla fine del primo conflitto mondiale e fino al 1945 si instaurarono tra il fascismo e il nazionalsocialismo da una parte e movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo, soprattutto africani ed asiatici dall’altra, costituiscono un capitolo della storia contemporanea trascurato non solo dagli storici dei «fascismi» che in quel periodo si svilupparono un po’ ovunque, ma anche, lacuna ancor più grave, da quelli del colonialismo e della decolonizzazione, sebbene il fenomeno, tipico di alcuni Paesi, in particolare del mondo arabo, ma anche, al di là di questo, di quello islamico, sia stato anzitutto un corollario dell’opposizione al colonialismo.

Cercheremo di ripercorrere la storia di questi rapporti, concentrando la nostra attenzione sulle politiche che l’Italia e la Germania, prima separatamente poi insieme, seguirono negli anni Trenta e Quaranta nei riguardi del modo islamico e dei Paesi arabi del bacino del Mediterraneo in particolare.

Le politiche delle due potenze europee si condizionarono reciprocamente, pregiudicando, in questo ambito geopolitico, i potenziali sviluppi auspicati dai più dinamici ambienti sia del fascismo sia del nazionalsocialismo. Inizialmente chiariremo quindi il ruolo che i Paesi arabi e islamici avevano nelle aspirazioni e nei piani italiani e tedeschi prima della nascita dell’Asse Roma-Berlino, per passare poi ad analizzare poi le modalità in cui si venne a concretizzare la collaborazione politica e militare nel corso del secondo conflitto mondiale.

Soprattutto in questo periodo, il nazionalsocialismo suscitò grandi speranze nel mondo islamico, assumendo nella fantasia delle masse arabe contorni favolosi. La figura del Führer, presentata messianicamente come un nuovo «profeta», ricevette un vasto omaggio, quasi una venerazione in molti ambienti islamici e non solo: basti pensare all’India induista. I sentimenti di profonda ostilità verso l’Inghilterra, responsabile del tradimento, dopo la prima guerra mondiale, delle speranze d’indipendenza arabe (con la sconfitta dell’Impero Ottomano, i territori della Palestina, della Siria, del Libano erano passati sotto il controllo anglo-francese), alimentavano la simpatia per l’Asse ed il Terzo Reich in particolare.

C’era, però, anche un’altra questione che infiammava – allora non meno di oggi – gli animi degli arabi e dei musulmani, quella ebraico-palestinese. A volontà britannica di dare soddisfazione alle aspirazioni nazionali degli ebrei alla ricerca di una patria dopo secoli di diaspora, infatti, se da un lato costituiva il tentativo di risolvere un problema, dall’altro ne apriva drammaticamente un altro, condannando il popolo palestinese a subire l’espropriazione e l’abbandono forzato della propria terra con le tragiche conseguenze che ancora oggi occupano tanta parte dell’attualità politica internazionale. Il desiderio di comprendere tale dramma, sia detto qui per inciso, è stato uno dei principali stimoli a realizzare l’indagine storica alla base di quest’opera.

Con la famosa dichiarazione Balfour del 1917 l’amministrazione britannica aveva assecondato e favorito le mire sionistiche sulla Terrasanta e dopo la prima guerra mondiale il flusso ebraico verso la Palestina si era prograssivamente intensificato, aumentando il senso di frustrazione degli arabi che pure avevano combattuto a fianco degli inglesi contro i turchi, sperando di poter dar vita ad una grande nazione araba, libera e indipendente. La posizione della Germania sulla «questione ebraica» contribuiva quindi a rafforzare le simpatie degli islamici per l’Ordine Nuovo mentre i regimi di Roma e Berlino costituivano modelli cui i movimenti e i partiti politici arabi, e quelli di altre zone del Terzo Mondo, potevano ispirarsi.

Esisteva poi un altro nemico comune all’Islâm e ai suoi alleati europei: il comunismo. Nell’URSS, in seguito alla rivoluzione dell’ottobre 1917, le moschee erano state adibite ad «altre funzioni», un gran numero di mullah era stato eliminato, le scuole coraniche ed altre istituzioni tradizionali islamiche distrutte o trasformate in strutture al servizio del regime sovietico.

Nei paesi del Maghreb, in tutto il Medio Oriente controllato dagli inglesi e nelle colonie francesi del Levante (Libano e Siria) la propaganda tedesca era notevolmente aumentata con l’avvento al potere del nazionalsocialismo e si erano intensificati i contatti con gli esponenti nazionalisti arabi ostili alla Francia. In Iraq nel 1941 si assisteva al tentativo di riscossa antibritannica dell’organizzazione nazionalistica Golden Square che, tempestivamente sostenuta dall’Asse, avrebbe potuto determinare un cambiamento delle sorti del conflitto. Churchill, strenuo sostenitore dell’impero britannico, resosi conto subito del pericolo incombente, corse tempestivamente ai ripari e, in nome della «sovranità limitata» concessa da Londra a Baghdad, riuscì a stroncare la resistenza irachena e a mantenere tutto il Medio Oriente sotto il controllo del governo di Londra. Lo stesso anno inglesi e sovietici intervennero in Iran, occupando il Paese, deponendo lo scià e assicurandosi il controllo dei pozzi di petrolio. Una sorte non diversa toccò alla Siria dove nazionalisti arabi e francesi fedeli a Pétain, alleato dell’Asse, cercarono di respingere l’attacco degli Alleati nel giugno-luglio 1941.

In Europa le vittorie germaniche aprirono la strada all’arruolamento di volontari di varie nazionalità e fra questi molti furono i musulmani europei dell’area balcanica che andarono a rafforzare i reparti della Wehrmacht e delle Waffen SS. L’operazione «Barbarossa» rese possibile l’arruolamento di centinaia di migliaia di volontari provenienti da varie regioni sovietiche e l’esercito tedesco verso la fine della guerra era una forza multinazionale, al cui interno i combattenti musulmani costituivano una percentuale tutt’altro che trascurabile. Dal pangermanesimo originario, attraverso varie fasi, la Germania era approdata prima a un arianesimo rispettoso delle stirpi indoeuropee e successivamente alla creazione di un fronte internazionale, comprendente uomini di tutte le fedi, cristiani, musulmani, buddisti e induisti. Non è però facile stabilire in quale misura ciò avvenne per convinzione ed evoluzione delle idee o per necessità, sotto la spinta di una guerra sempre più difficile da sostenere.

Nella prima parte di questo studio, «Il fascismo, il nazionalsocialismo e la decolonizzazione», ripercorreremo le relazioni che intercorsero, dal 1919 in poi, tra Mussolini, il fascismo delle origini e quello del regime, da una parte, e i più rappresentativi esponenti del nazionalismo arabo e del mondo islamico dall’altra, analizzando le «affinità ideologiche» del fascismo con I’Islâm, la contraddittoria politica araba dell’Italia, «ponte tra Oriente e Occidente», ma attenta a non pregiudicare più di tanto i suoi rapporti con Londra.

Approfondiremo quindi i contatti tra il nazionalsociali-smo e i movimenti di liberazione arabi e islamici, la politica di Führer e dei tedeschi, le somiglianze tra la visione del mondo islamica e quella nazionalsocialista.

Analizzeremo le tappe della politica di collaborazione che si sviluppò, dal 1936 fino al 1945, tra le potenze dell’Asse e quei movimenti di liberazione, concentrando l’attenzione su varie questioni: sull’opera dei massimi interlocutori di Roma e Berlino, il Gran Mufti di Gerusalemme e Rashîd ‘Alî al-Gailânî, ma anche sugli altri esponenti nazionalisti arabi che, a vari livelli, si schierarono con l’Asse, facendo riferimento alle vicende diplomatiche e militari riguardanti quella parte del mondo; sugli sforzi dei leader arabi per ottenere un riconoscimento ufficiale della loro causa da parte di Roma e Berlino e sul desiderio di queste di non turbare più di tanto le relazioni con la Francia di Pétain e la Spagna di Franco; sui progetti di liberazione del mondo arabo da nord-est (le armate tedesche dal Caucaso avrebbero dovuto investire e liberare il Medio Oriente e… l’India) e da ovest (l’avanzata dell’Afrika Korps e la liberazione prima dell’Egitto, poi degli altri Paesi mediorientali); sull’attività propagandistica indirizzata da tedeschi e italiani ai mondo islamico; sulla concreta collaborazione degli arabi e dei musulmani nell’Europa dell’Asse.

Nella seconda parte, «La spada dell’Islâm», è dettagliatamente ricostruita la storia dei corpi militari che i tedeschi riuscirono a costituire con volontari musulmani. È la storia delle unità arabe della Wehrmacht; delle tre divisioni di SS islamiche costituite con europei della Bosnia-Erzegovina e dell’Albania; delle tante unità dell’esercito e delle Waffen SS cui dettero vita uomini originari delle repubbliche musulmane dell’URSS: tartari, uzbeki, turcomanni, tagiki, azeri, kirghisi. Viene, infine, ripercorsa la breve e simbolica esperienza delle «Frecce Rosse», i volontari arabi che l’esercito italiano, sotto gli auspici del Gran Mufti, tentò di organizzare prima della caduta del fascismo.

STEFANO FABEI

INDICE

Prefazione

Ringraziamenti

Introduzione

PARTE PRIMA: I FASCISMI E LA DECOLONIZZAZIONE

Capitolo Primo
Il fascismo delle origini e l’Unione islamica dei Popoli Oppressi

Capitolo Secondo
L’Italia fascista e il mondo arabo

Capitolo Terzo
Un ponte verso Oriente

Capitolo Quarto
Il fascio e la mezzaluna

Capitolo Quinto
La Germania nazionalsocialista e l’Islâm

Capitolo Sesto
L’Asse e l’Islâm tra il 1936 e il 1939

Capitolo Settimo
La seconda guerra mondiale: il 1940

Capitolo Ottavo
Fiamme a Oriente

Capitolo Nono
L’Afghanistan testa di poste per la liberazione dell’India

Capitolo Decimo
L’Europa base del jihâd

Capitolo Undicesimo
Lotta per la leadership

Capitolo Dodicesimo
Il Mufti e al-Gailânî a Roma

Capitolo Tredicesimo
Primavera a Berlino

Capitolo Quattordicesimo
L’Egitto sogna la libertà

Capitolo Quindicesimo
Fine del sogno egiziano

Capitolo Sedicesimo
L’invasione del Maghreb

Capitolo Diciassettesimo
La guerra delle onde

Capitolo Diciottesimo
Epilogo in Tunisia

Capitolo Diciannovesimo
Gli arabi di Francia sotto le bandiere del Reich

Capitolo Ventesimo
La guerra continua

PARTE SECONDA: LA SPADA DELL ‘ISLÂM

Capitolo Ventunesimo
Gli arabi nelle forze armate del Terzo Reich

Capitolo Veniduesimo
L’Europa musulmana combatte con l’Asse

Capitolo Ventitreesimo
Per Allâh contro Stalin

Capitolo Ventiquattresimo
Gli arabi nell’esercito italiano

Bibliografia

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